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    Caro Dario, adesso potrai correre con il tuo amico Pantani

    Caro Dario, adesso potrai correre con il tuo amico Pantani

    • Marco Bernardini
    Il mondo ha perso un Premio Nobel. Ma soltanto fisicamente. La sua opera e soprattutto il suo spirito rimarranno presenti in ogni luogo e in particolare dentro le coscienze di tutti coloro i quali provano la necessità di vivere veramente piuttosto che sopravvivere. Oggi il lutto è planetario. Perché un geniale artista a tutto tondo come Dario Fo apparteneva all’umanità, senza confini. Dalla Cina all’Islanda, dall’America all’Australia e persino nella piccola isola di Tonga dove una compagnia teatrale del luogo aveva messo in scena un suo lavoro.

    Il cuore, ovviamente, stava a Milano con le radici però puntate verso il Lago nel paese sottomonte dove era nato novant’anni fa. Ragazzino, dipingeva quadri stralunati come lui e come il suo fisico alla Jaques Tati e poi, tutti i giorni, inforcava la sua bicicletta per aggredire le montagne che separavano l’Italia dalla Svizzera.

    Sognava di essere Bartali. Avrebbe desiderato diventare ciclista professionista. E' questa, una delle piccole confessioni che Dario mi fece tanti anni fa. Davanti ad un piatto di penne al pomodoro, nella trattoria di Gino in via Colletta a Milano, dopo lo spettacolo tiravamo tardi insieme con Franca e qualche “compagno” a parlare di tutto e di niente come fanno i sognatori.

    Era il 1970. Ero “scappato di casa” da Torino, come facevano tutti i ragazzi di allora per desiderio di indipendenza, e illudendomi di possedere acceso dentro il sacro fuoco dell’attore ero riuscito a trovare, insieme con Marco Columbro, un piccolo spazio nella compagnia Fo-Rame ormai lanciata a testa bassa nell’avventura del teatro politico. “Morte accidentale di un anarchico”, la storia del povero ferroviere Pinelli volato dalla finestra della questura di via Fatebenefratelli a Milano, era il cavallo di battaglia bianco della “rivoluzione” e della “giustizia” che si cavalcava ogni sera sul palco della Comune. Il mio però non era un  fuoco sacro, ma un cerino acceso. Ma Dario e Franca mi volevano bene. Soprattutto lei, donna unica e artista sublime. Furono quattro stagioni stupende prima che decidessi ragionevolmente di prendere il volo per altra destinazione professionale.

    Da allora, comunque, non ci siamo mai più persi di vista. Alla morte di Franca ho perso una sorella. Oggi, con la partenza di Dario, ho perso un maestro oltreché un saggio e sempre presente consigliere nei momenti di maggiore difficoltà. Per un problema serio telefonavo a lui. Fino al mese scorso. Mi ha sempre aiutato.

    Il mondo, oggi e nei giorni successivi, parlerà di Dario Fo e delle sue opere non solo teatrali alle quali si è dedicato, insieme con il figlio Jacopo, sino a pochi giorni prima del ricovero in ospedale. Da parte mia, voglio e mi piace raccontare del Dario “minore” e confidenziale legato in qualche modo anche a tutti i nostri lettori dal sottile filo dello sport.

    Non il calcio, quello attuale almeno, che Dario riteneva ridotto a una sorta di slot machine infernale e il cui pensiero lo aveva spinto a spegnere la sua passione per il Milan condivisa con l’amico Jannacci. Il ciclismo sì. La disciplina del coraggio e della fatica che, malgrado le contaminazioni drogate o anche soltanto dopate le quali hanno ammorbato il movimento, per Fo continuava a essere ciò che era stato quando da ragazzino sognava di violare le vette delle montagne come faceva Bartali.

    Ricordo in  proposito, a disperazione autentica dipinta sul volto del maestro quando apprese la notizia della morte di Marco Pantani del quale era appassionato tifoso. Il campione romagnolo era anche un buon amico di Dario Fo e di Franca Rame. Vicino di casa a Cesenatico, dove i due fin da giovani hanno sempre trascorso le vacanze. spesso Pantani si trovava al tavolino in un bar sul lungomare per bere una cosa con loro. Ed era Dario, quelle volte, ad abbeverarsi con le storie agonistiche e non che si faceva raccontare dal Pirata. La scomparsa di Pantani scatenò la “furia” interiore e sociale di Dario il quale, come Antonio davanti al corpo di Cesare assassinato, denunciò senza mezzi termini come era solito fare di fronte a un’ingiustizia l’orrore di una morte annunciata “dall’invidia, dall’abbandono, dalla truffa, dalla mancanza di solidarietà e dalla solitudine. La cocaina era soltanto l’ultimo tragico atto di una colpa non sua”. Erano le parole di Dario.

    E a lui che, per una vita, si è sempre dichiarato coerentemente ateo eppure anche curioso  di vedere “se riuscirò a potermi stupire quando sarà arrivato il momento”, mi piace augurare che da qualche ora, insieme con Franca e con i suoi amici compreso Pantani, stia pedalando tra le nuvole a bordo di una bicicletta leggera come l’aria e provvista di ali.

    Ciao grande amico mio e maestro di tutti.

     

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