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Calcio e razzismo, la 'banalità del male': fermare le partite non è moralismo
Che male fanno quelle centinaia o migliaia di ragazzi, ragazze, adulti, vecchi, quando urlano buu ai calciatori di colore? Non esageriamo! È solo un banale “sfottò”. Ecco, siamo al punto: alla banalizzazione, che rende accettabile l’infamia. “Eh, ma mica li ammazziamo! E poi: che sarà mai una partita di calcio? Non esageriamo: sono proprio i moralisti che, esagerando, fomentano il razzismo”. Sono tre argomentazioni centrali a cui proviamo a rispondere.
L’Olocausto fu la soluzione finale a un diffuso atteggiamento di disprezzo nei confronti degli ebrei (un buu quotidiano, irridente). Una partita di calcio è un evento collettivo, un fatto, rivestito anche da un messaggio altamente comunicativo e simbolico. Condannare con semplicità e fermezza ogni forma di razzismo nascente e diffusa non è moralismo. Chi definirebbe moralisti coloro che criticano la corruzione?
Hannah Aarendt, nel suo libro, non toccò l’aspetto economico dell’Olocausto. Non era quella sede. Per quanto riguarda calcio e razzismo, è, invece, essenziale. Interrompere una partita di calcio lede troppi e variegati interessi. Ci riesce solo un evento naturale. E nemmeno quello: ci vuole una catastrofe. Banale no? In fondo, il clima non è moralista.