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    C'era una volta la Serie A: chi ha ucciso il campionato più bello del mondo? L'analisi di Gianni Mura

    C'era una volta la Serie A: chi ha ucciso il campionato più bello del mondo? L'analisi di Gianni Mura

    Su la Repubblica, Gianni Mura analizza la crisi del calcio italiano. 

    Sarà l'approssimarsi del mondiale, sarà che la pazienza è agli sgoccioli, sarà il successo del film di Sorrentino, fatto sta che in tanti si sono accorti della povertà media del gioco del calcio in Italia. Media perché qualcosa da salvare c'è: la Juve-rullo (non sempre), la Roma (spesso), la Fiorentina finché non è rimasta senza attacco, qualche sprazzo del Parma, del Torino (non di recente), della Samp (da quando c'è Mihajlovic), dell'Udinese. Ma il salvabile è sempre troppo poco, rispetto a quel che c'è da buttare. Ormai, ingozzati di bruttezza, ci basta una bella azione rasoterra o un tiro nel sette per sentirci sazi.

    Il 38% di italiani che gioca in A è una campana a martello per Prandelli, che sinceramente non è da invidiare. Ma il livello del gioco riguarda tutti: chi lo organizza e chi lo paga, chi lo gioca e chi lo guarda. La cosa più grave non è che siamo fermi, è che siamo tornati indietro, e non può dipendere solo dal massiccio arrivo di stranieri. Dalla qualità, semmai.

    C'è stato un tempo non lontano in cui anche le squadre di provincia avevano autentici campioni: l'Udinese Edinho e Zico, il Cagliari Francescoli e Fonseca, il Pescara Junior e Sliskovic. Oggi molte squadre, le milanesi in particolare, sono imbottite di stranieri di discutibile livello. Perché si gioca male? Tentativo di risposta per punti.

    1. La crisi economica incoraggia il partito dei piccoli passi. Non possiamo permetterci Messi o CR7. Giusto. Allora, tanto varrebbe lavorare meglio sui vivai e costruirsi il buon giocatore in casa, come sempre s'è fatto fino agli anni ‘90. Questo vale per giovani italiani e stranieri.

    2. Gli allenatori di A e B sono in perenne discussione, bastano due o tre risultati storti per far traballare una panchina. Da qui una scarsissima voglia di rischiare, da qui un atteggiamento tattico che mira più a bloccare il gioco altrui che a imporre il proprio. Da qui un infoltimento di centrocampo e difesa, la solita tonnara, sperando nel contropiede buono. Il catenaccio, scacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra. Si gioca, anche tra squadre di pari rango, per beccare un gol in meno e non per farne uno in più. Il catenaccio, bisogna anche saperlo fare. Quanti contropiede in superiorità numerica abbiamo visto sfumare per imprecisione nell'ultimo passaggio?

    3. Il calendario troppo fitto rende praticamente impossibile un serio allenamento. In compenso, le rose molto più vaste dovrebbero suggerire un'alternanza forte, ma poi finisce che giocano sempre gli stessi, con pochi ritocchi. E così coi primi caldi ci sono giocatori già bolliti e altri freschissimi, perché poco usati. Questo vale per le squadre impegnate in Europa. Le altre non hanno giustificazioni.

    4. È tramontata la figura dell'allenatore-maestro (come Liedholm, come Bagnoli). Oggi è un gestore di risorse umane, non ha tempo né voglia di insegnare, anche i fondamentali se occorre, a ragazzi che si presentano (e sono stolidamente retribuiti) come fossero già "imparati".

    5. Spagna-Italia non è stata solo una lezione di tecnica, ma di velocità e di condizione atletica. Di ritmo, in una parola sola, che in Italia molte squadre abbassano e poi, fuori d'Italia, non sanno reggere. Strano, in un periodo in cui tutto s'è sacrificato al muscolo, a partire dalla tecnica e della leggerezza. Strano ma vero.

    6. Il clima. Il nostro continua a essere cupo, in stadi semideserti che non invogliano a grandi recite. Ma dove sono i grandi interpreti? Il nostro è il calcio delle puncicate, dei bomboni, dei cori razzisti o antisemiti, delle simulazioni, degli abbracci o dei cazzotti in area. È un calcio che ignora il concetto di festa, di allegria. La bellezza gli è estranea. Oppure è liquidata come merce per gonzi, per sognatori.

    7. La bellezza non è necessariamente un colpo di tacco, un gol a palombella o con una botta da 30 metri, o due dribbling di fila. È nel coraggio, nella lotta, nella dignità, nella lealtà, nella fantasia, nell'armonia della manovra, nella sorpresa di un gesto. Ma è, alla base, nel saper fare il proprio mestiere. Saper cosa fare di un pallone tra i piedi.

    8. Le pay, che esaltano lo spettacolo anche quando non c'è, sono un boomerang. Aprono finestre su altri campionati. Scopriamo che si gioca meglio altrove. Notiamo un altro modo di giocare, altro pubblico, altro spirito. Eppure i procuratori hanno potere anche lì, anche lì nessuno gioca per perdere e conta il risultato. Qui si sente molto parlare di filosofia e di progetti, ma si fatica a vederne l'ombra. Ci vuole tempo. C'è tempo?

    9. Si parla molto di nuovi stadi, ma se gli attori non sanno recitare restano guitti anche nel miglior teatro del mondo. Al di là della partita giocata, il calcio in Italia è moviola, arbitri, aiutini e aiutoni, insulti, permalosità. Ognuno guardi in casa sua e di quella al massimo parli. Così non circolano idee, si resta nella palude della banalità. Che si discuta di bellezza è già qualcosa. Non so quanto durerà l'eventuale dibattito. Poco, penso. E comunque la tessera di aderente al gruppo dei mendicanti di bellezza (la definizione è di Eduardo Galeano) me la tengo stretta.

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