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    Buffon dedica la vittoria a Quattrocchi. E scatena un putiferio

    Buffon dedica la vittoria a Quattrocchi. E scatena un putiferio

    Dopo Juventus-Monaco 1-0, il capitano bianconero Gianluigi Buffon dedica la vittoria a Piermario Morosini e Fabrizio Quattrocchi. E scoppia la polemica, su giornali, siti e social. Leggiamo e riportiamo due punti di vista opposti sulla vicenda.


    Luca Bottura sul suo blog lucabottura.net.

    Ciao Gigi,

    quando ho letto che hai dedicato la vittoria sul Monaco (anche) a Fabrizio Quattrocchi, lo ammetto, ho pensato male. Sai come siamo noi saputelli di sinistra, no? Quattrocchi non è solo una tra le troppe vittime della guerra liquida in cui ci è dato di vivere – che la terra gli sia lieve – ma è pure diventato un’icona per l’estrema destra italiana che preferisce chi negli scenari di guerra va da contractor (non uso quella parola là, quella brutta) piuttosto che le Onlus impegnate a portare tre garze e due bende, un po’ di conforto, di umanità. Quelli invece vengono (mal)trattati, descritti come incoscienti per il cui riscatto non andrebbe versato un centesimo. Mai.

    Per questo, Gigi, con grande affetto, perdonami, ti chiedo scusa, ho istintivamente ricollegato questa dedica a certi tuoi episodi del passato: quando ti presentavi in tv con magliette che inneggiavano al Duce, quando sceglievi come numero di maglia slogan nazisti, quando sul pullman-scudetto bianconero spuntavano simbologie nostalgiche gentilmente offerte dai soliti ultrà. Quando cioè ti ergevi a icona di quell’arietta incidentalmente totalitaria che pervade il nostro calcio e temo non lo renda migliore. Ogni volta che ti è capitato, quando se ne sono accorti – del pullman no, ad esempio, ma sicuramente manco tu – hai sempre spiegato che non sapevi. E sono certo che anche in questo caso non avessi idea non tanto di chi era Quattrocchi e di cosa rappresenti – quella dedica è certamente sincera, oltre che legittima – quanto invece cosa di cosa sia accaduto prima e dopo quel tristissimo episodio.

    Allora, sperando che la Juve abbia mille altri successi da festeggiare (o anche l’Italia, perché no? Ti meriteresti di sollevarla, ‘sta Coppa del Mondo) volevo informarti di due possibili dediche prossimo-venture. Due nomi. Il primo è quello di Enzo Baldoni, un tipo davvero brillante, pubblicitario, cronista, scrittore. E volontario della Croce Rossa. Fu ammazzato in Iraq poco dopo Quattrocchi, tra le pernacchie e gli sfottò di certi commentatori della destra per cui i morti, appunto, non sono affatto tutti uguali. Anche se hanno in tasca lo stesso passaporto tuo e mio. L’altro si chiama Paolo Dall’Oglio. E’ padre gesuita. Era in Siria, nel 2013, per trattare la liberazione di alcuni ostaggi. Hanno rapito pure lui e adesso non si sa dove sia: forse morto, forse in custodia dell’Isis. E ci sembra normale, non ne parla nessuno. Nemmeno in quel mondo del calcio che dedica l’intero campionato di serie B ai nostri marò.

    Ma davvero, Gigi, non ne faccio una questione di benaltrismo. Ognuno è libero – fortunatamente – di celebrare chi rappresenta qualcosa di particolare per lui. Però sono certo che, dopo averli conosciuti, anche Enzo Baldoni e Padre Dall’Oglio saranno per te due italiani di cui andar fiero. Stavolta, consapevolmente. E a cui, magari, dedicare un briciolo di attenzione.

    Ciao.



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    Tommaso Lorenzini per Libero Quotidiano.

    Spesso, con una punta di cinico compiacimento, fra addetti ai lavori e a microfoni spenti sentiamo dipingere i calciatori come degli analfabeti (nel migliore dei casi), qualcuno improvvisa barzellette «alla Totti» e ride di gente ritenuta incapace di mettere in fila un paio di idee.
     
    Vero, è anche “merito” delle “puntute” interviste alle quali i giocatori rispondono con stereotipi al limite del lobotomizzato: «Abbiamo dato il massimo, sono contento di mettere in difficoltà il mister, sapevamo che era una partita difficile» e via così. Tuttavia, quando un calciatore possiede un’opinione autonoma ed ha pure il brutto vizio di esprimerla finisce quasi sempre al muro perché diversa dalla vulgata del politicamente corretto.

    Soprattutto se si chiama Gigi Buffon, la cui propensione alle uscite per non risultare mai banale (va ammesso) spesso rasenta l’autogol: ma stavolta tanto di cappello. Dopo l’1-0 della Juve sul Monaco in Champions, il 37enne capitano bianconero (e della Nazionale) ha fatto presente che a smettere proprio non ci pensa e poi, quasi commosso, ha chiuso l’intervista di rito così: «Dedico questa bella vittoria a due persone, morte nello stesso giorno (il 14 aprile, ndr), che mi hanno reso orgoglioso una di essere calciatore, l’altra di essere italiano.

    Piermario Morosini e Fabrizio Quattrocchi, che è sempre nel mio cuore». Apriti cielo. Se il tirare in ballo Morosini - scomparso nel 2012 per attacco cardiaco - è costato a Buffon - fra le altre critiche - pure un elegante «come confondere la merda con il cioccolato: povero Moro», il web (che ormai incarna la Coscienza Collettiva del «si può/non si può») e commentatori “sinistri” di professione hanno immediatamente sfruttato l’omaggio al «mercenario» ma medaglia al valor civile Fabrizio Quattrocchi («vi faccio vedere come muore un italiano», esclamò ai suoi assassini islamici in Iraq nel 2004) per rinfocolare la loro acredine contro le note simpatie politiche di Buffon.

    Come Luca Bottura, blogger radical chic (particolarmente infoiato anche contro Libero) che ricorda a Gigi «quando ti presentavi in tv con magliette che inneggiavano al Duce, quando sceglievi come numero di maglia slogan nazisti, quando sul pullman-scudetto bianconero spuntavano simbologie nostalgiche gentilmente offerte dai soliti ultrà. Quando cioè ti ergevi a icona di quell’arietta incidentalmente totalitaria che pervade il nostro calcio e temo non lo renda migliore». Se avesse fatto un selfie con la t-shirt di Che Guevara sotto la maglia della Juve e avesse dedicato la vittoria - hasta, siempre! - a un Carlo Giuliani qualsiasi, Buffon si ritroverebbe oggi eletto a campione del libero pensiero, tutti a taggare #jesuisbuffon.
     
    E invece gli si chiede conto del perché non abbia dedicato il successo anche a Enzo Baldoni, Vittorio Arrigoni, perfino padre Paolo Dall’Oglio (rapito nel 2013 in Siria e ci auguriamo ancora in vita). E perché non a Totò (ieri l’anniversario della scomparsa) aggiungiamo noi? Gigi si è spesso trovato i fucili puntati addosso - anche i nostri - per frasi come quel «meglio due feriti che un morto» quando impazzava il calcioscommesse (e non era il solo a pensarla in quel modo), per le sue aziende che vanno male, o anche per quelle spese di condominio pagate in ritardo.
     
    Ma trovare qualcosa di indecente nelle sue parole e nel ricordo di un uomo che più di mezza Italia considera un eroe, stavolta è un esercizio di stile che poteva riuscire solo all’Inquisizione di sinistra. Più facile fare come l’amministrazione di Genova, la città dove è cresciuto Quattrocchi: anche nell’11° anniversario della morte, i “compagni” se ne sono fregati alla grande.

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