Bucciantini: Pioli e il lato debole, Inzaghi e il pensiero debole
La Lazio è una squadra che ha un’identità precisa, sin dall’avvio di stagione. Fa gioco di contrattacco, ma lo fa splendidamente: il modo di ribaltare l’azione è organico, pieno, partecipato. Merito di due giocatori capaci di impostare una transizione veloce e tecnica, come Felipe Anderson e Candreva: è evidente la capacità di entrare nelle difese palla al piede o scambiando in velocità. Mentre è più sottovalutata la loro abilità a tenere palla sui lati, che permette varie strade per gli inserimenti, e Mauri è giocatore sopraffino nel trovarsi lo spazio in mezzo alle difese preoccupate dalle scorribande. Klose sa aiutare queste avanzate sia offrendo sponde e fraseggi, sia occupando l’area e la profondità. In più - come accadeva al Napoli quando c’era Insigne a fare possesso palla a sinistra - la Lazio è forte sul lato debole dell’azione, per dirla come si fa nel basket: nella parte cioè opposta alla palla. Nel Napoli era sublime il lavoro di Callejon (che infatti è calato proprio da quando è più difficile custodire la palla sull’altro fronte, per l’infortunio di Insigne e il diverso modo di giocare di Gabbiadini e/o Mertens). Nella Lazio sono proprio quei due, Candreva e Anderson, che alternano il lavoro di regia decentrata e di minaccia sulla parte del campo meno addensata, con Mauri che si muove verso la palla. Al di là del pezzo di bravura contro i viola, Biglia assicura un primo passaggio veloce e semplice, e più spesso si limita all’interdizione di posizione. Cataldi corre per tenere stretti e vicini i reparti. Anche ieri due reti sono arrivate grazie a ripartenze che si sono sviluppate su un lato per trovare poi appoggio anche sull’altro. Quest’ampiezza è di ottimo effetto estetico e soprattutto pratico. È dispendiosa (per questo non è riducibile al solo contropiede), e infatti il limite della Lazio di questa stagione è proprio la gestione delle partite, con alcuni risultati dilapidati alla distanza. Ma la mancanza della fatica di Europa League conserva i muscoli rispetto alle tre rivali per la corsa Champions, anche se una fra Roma e Fiorentina ha ancora una settimana di gravami e poi sarà tormentata solo dai rimpianti, e non è detto che siano meno faticosi.
Questa intensità della Lazio può rivoluzionare la classifica, senza troppo stupore: saper sviluppare un ritmo di gioco superiore può fare la differenza perché la stanchezza è diffusa, netta, ovunque. Anche la Juventus viaggia d’inerzia. Qualcosa trova sempre, e se lo fa bastare. La Roma invece non trova più niente, l’attacco continua con miseri numeri, il punto di riferimento del reparto (Gervinho) ha segnato un gol negli ultimi sei mesi, e di sicuro non lavora per gli altri, visto che tende a concludere ogni sua azione. È braccato, e così per Totti diventa difficile spremere quello che è rimasto della sua grandezza, e cioè la visione di gioco: nessuno si smarca. Lui non riesce più a rovesciare le partite, il suo impiego andrebbe ripensato, forse invertito (dentro l’ultima mezz’ora). Così sembra un enorme alibi per Garcia dentro partite che Totti può abitare a piccoli sorsi. Tenerlo lì come garanzia di popolarità, e toglierlo dopo un’ora come dimostrazione di autonomia.
Ormai è prassi saggia concedere la palla alla Roma, costringerla ad arrangiare le azioni. Lo stesso Totti, e Pjanic, e Nainggolan: per vie diverse, anche opposte, sono tutti masticatori di palla, dominatori preferiscono la zona centrale, lasciando i lati ai duelli sempre più impossibili per Gervinho o Ljajic o Iturbe. Infatti emerge spesso Keita, l’unico che considera anche lo spazio. Infatti manca come il pane Strootman, centrocampista capace di vivere anche con pochi palloni a partita, capace di allungare la squadra con la sua idea di verticalità, con gli inserimenti nel cuore dell’area, mentre gli altri arrivano solo a rimorchio, e si fermano al limite. Si può giocare anche senza centravanti classico, ma qualcuno deve impossessarsi di quello spazio, a turno, da destra, dal centro, da sinistra, da lontano. Il motto di Guardiola era: "Il centravanti è lo spazio". Nel senso che il posto era lì, nessuno era padrone di quei metri quadrati, e lo erano di conseguenza tutti. Nella Roma non lo è nessuno. Iturbe e Ljajic non sono violentatori d’area, ci entrano controvoglia, preferiscono correre (Iturbe) e danzare (Ljajic) intorno al limite. Garcia non sa trovare un assetto d’attacco che garantisca un’autosufficienza del reparto, nemmeno minima. Non si può lottare per obiettivi massimi senza giocatori decisivi.
Ma è solo uno dei problemi della Roma, assieme una difesa senza riferimenti né centrali né laterali, dove lo scorso anno la personalità di Benatia e Maicon assicurarono molti gol, molte azioni pericolose, e dunque molti punti. Poi sembra logora la sensibilità che scorreva fra Garcia e i suoi, forse il tecnico ha consumato un po’ di credibilità anche nelle scelte di mercato. Dopo la gara con il Chievo è stato duro con la squadra, per la prima volta: ma è arrivato a questa separazione solo perché ha sottovalutato tre mesi di carenze nel gioco e nella brillantezza psico-fisica. All’orizzonte c’è un derby a maggio che ricorda la finale di coppa di due anni fa: può diventare uno spareggio. La Roma ha tempo (ma non troppo) e uomini (ma non troppi) per costruirsi un finale di stagione importante. Ma Garcia deve ricostruire, inventare qualcosa: il senso di deterioramento assale la sua squadra, e fortifica gli avversari.
A questa corsa Champions parteciperanno anche Fiorentina e Napoli, ovviamente. Hanno qualità e certezze di gioco. Hanno una mentalità propositiva e ottimista (soprattutto i viola). Il serbatoio si va svuotando, ma quell’indole suddetta è una riserva di benzina inestinguibile. Non riescono nel galoppo lungo, ogni tanto sembrano costrette all’inciampo, soprattutto la squadra di Benitez, che ha elevato lo spreco a sistema di vita. Inutile sperare di togliere di mezzo certe lacune: dopo 18 mesi di lavoro, questa è la cifra netta del Napoli, da prendere così, magnifico e difettoso. Poi, se il tecnico ogni tanto se la racconta come vuole e come gli fa comodo, è un altro discorso, a uso e consumo dei media. Questa sì che è tattica, non come quella che ogni tanto disprezza in campo, sì da subire le malizie delle provinciali. Ma raccontarsela a piacere è tipico del dopo partita. E così si arriva alla chiusura con Mancini e Inzaghi, che teniamo insieme per retorica (e per classifica: c’è solo un punto, eppure mediaticamente sembrano dieci). Inter e Milan, in campo, sembrano invero ai lati opposti di una strada, l’Inter propone un’idea di calcio, anche se non ancora la sostiene con la manovra e una continuità agonistica affidabile. Il Milan sembra una rappresentativa radunata la domenica allo stadio, un’ora prima del match. In campo ognuno va per sé, i reparti non lavorano insieme, non esistono movimenti armoniosi, non esistono linee di passaggio identitarie. Eppure nell’ultimo dopopartita, Mancini e Inzaghi sembravano similmente ciechi. O superbi o troppo orgogliosi o troppo impauriti dalla verità, così da raccontare una partita che è esistita solo nella loro testa. Inzaghi ha ridotto tutto con la frase "siamo stati dei polli, la partita era vinta". Vinta come? Vinta cosa? Un rigore - fallo su un giocatore che non stava tirando - e un autogol, su un tiro che non andava verso la porta: niente è stato creato su azione, nessuna manovra è stata potenzialmente efficace. Il Milan è stato niente: nemmeno a campo aperto, sul finale. Il Verona ha fatto il minimo, ma all’inizio e alla fine ha occupato il campo da squadra. Modesta, ma squadra. Eppure, Inzaghi ha ripetuto mille volte il fastidio e il rammarico di un gol preso alla fine. Seccante, questo è certo. Ma non c’è mai nelle sue parole nessuna analisi tattica, non sembra esserci nessuna presa di coscienza di una squadra che attraversa le partite senza mai giocarle.
Mancini invece ripete da due giorni che a Napoli l’Inter poteva vincere, e doveva provarci, negli ultimi 5’, dopo essere "andati sotto perché facciamo calcio propositivo, perché non rinunciamo mai ad attaccare, ci siamo ritrovati 2-0 senza sapere perché". Eppure il perché era evidente.
Il nostro complimento all’Inter lo abbiamo fatto qualche riga sopra, e ne siamo convinti. E saremo perfino sentinelle di buon senso contro chi comincia (fra i colleghi) a sussurrare che Mazzarri era meglio (e diffonde improbabili dati che lo stesso Mazzarri mette in circolazione, sperando nelle amnesie collettive). Ma l’Inter ha portato a casa un punto perché ha avuto carattere, e una certa personalità quando i cambi hanno messo i migliori giocatori nei ruoli appropriati: sul piano del gioco per un’ora è stata una dimostrazione di superiorità netta del Napoli, capace di portare gli attaccanti davanti alla porta in cinque, sei occasioni, assecondando gli spazi a velocità doppia, interpretando meglio le situazioni della partita. Il 2-0 era sacrosanto, altro che casuale, poteva essere 3-1, ma non perché l’Inter proponeva calcio: semmai ne subiva in grande quantità e qualità! Poi, si sa, il Napoli non ha un centrocampo che governa le partite, le sfuggono di mano senza avviso, e l’Inter si è sistemata meglio, trovando venti minuti promettenti che può coltivare, far crescere, se avrà l’umiltà di capire che il distacco fra quelle davanti è reale, il perché c’è e si vede.