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    Bucciantini: Kovacic, nessun rimpianto?

    Bucciantini: Kovacic, nessun rimpianto?

    Diciotto partite nella prima (mezza) stagione, 35 nella seconda, 44 nell'ultima, con le prime reti e non poche: 8. Un numero discreto per un centrocampista di 21 anni che pensa un calcio d'attacco ma non è un trequartista. La crescita di Mateo Kovacic era meno dirompente di quanto fosse annunciata ma i numeri avevano una progressione interessante e promettente. I numeri non sono tutto: quando le aspettative sono alte, si perde la proporzione con il tempo e con gli aggettivi, in un mondo (quello del calcio) dove già è labile qualsiasi senso della misura. Questa sproporzione ha bruciato i giudizi, affrettando le conclusioni, arando il campo alla cessione, resa perfino legittima dai soldi del Real, ma già ampiamente preparata nei mesi scorsi.

    Eppure la Serie A perde uno dei ragazzi più forti in circolazione. E l'Inter s'arrende ai calcoli urgenti, monetizzando il futuro, forse sfuggendo a guadagni maggiori nei prossimi anni, sicuramente perdendo qualcosa, come succede a chi non sa difendere una magnifica idea per la difficoltà di realizzarla. Kovacic è difficile da mettere in campo: lo è ora, a 21 anni, per motivi suoi e per motivi tattici più complessivi. Magari non lo sarebbe stato fra qualche mese, o qualche anno. E probabilmente non lo sarebbe stato in una squadra dall'impianto certo, con fonti di gioco “naturali”, dove lo stesso croato poteva partecipare in modo più personalistico, fino alla completa maturazione tattica e agonistica. Ma l'Inter non ha una zona del campo dove sgorga calcio: questo è il problema. Ed elimina dal mazzo la carta matta, indicandola come causa (e togliendo di mezzo un alibi, attenzione). Il tecnico ha preferito giocatori più semplici da mettere in campo piuttosto che piegare a un lavoro profondo un organico forte, vario, ma non proprio completo.

    Kovacic è un dominatore del pallone ma non lo è del campo. Il suo gioco si realizza nel possesso personale del pallone, anche prolungato. La visione di gioco è successiva al completo dominio, che per forza sembrava dover passare dall'elusione di qualche avversario. Il vero problema era la sua difficoltà ad andare verso la palla: il suo ingresso nell'azione era casuale, non “dettato” dai tempi di manovra (inesistenti: erano e forse sono ancora la vera disgrazia dell'Inter) né da movimenti di Kovacic verso il gioco. Così la sua partita era ibrida: dominante e troppo parcellizzata e discontinua. Un dominatore deve cercare di possedere il pallone ma anche il campo, far appoggiare tutta la squadra su di lui. Oppure trasformare i momenti di dominio in azioni irresistibili, pericolose, capace di accendere l'attacco: spesso si esaurivano addosso a lui, così come solo nella sua testa nascevano. Altre volte sono state perle: rivederle stringe il cuore.

    Tutto questo per analizzarlo dalla parte dei difetti, per giustificare onestamente una difficoltà di collocazione: poco veloce e poco voglioso di inserirsi senza palla per giocare da trequartista. Poco continuo per presidiare e dominare la mediana. Per ora, era un interno da centrocampo a tre, con momenti deliziosi e assenze perduranti: per ora. Poteva (potrà) diventare tutto. E molti difetti erano dovuti anche dai faticosi disimpegni di una squadra che trasferisce male il pallone, dal centro e dai lati, e sfoga male su attaccanti poco collaborativi. Quando si maneggia un talento così intuibile, così limpido, bisogna accentare (perfino esaltare) qualsiasi miglioramento, anche lieve, anche appena percettibile. E incoraggiarlo. Kovacic intanto si era avvicinato alla porta: senza vocazione, senza la mentalità decisiva e risolutiva, ma intanto si era avvicinato, ammesso che servisse in quel ruolo,lassù. L'accusa più sentita era che al ragazzo mancasse una decente balistica: può darsi. Intorno a lui, a dividersi il compito di sostenere l'attacco, nell'Inter c'erano due tiratori eccezionali, fra i migliori in circolazione: Hernanes e Guarin. Entrambi, la scorsa stagione, hanno segnato meno di Kovacic, arrivando a concludere molte volte di più! (certo, avevano più esperienza e hanno saputo riempire maggiormente le partite).

    L'impressione di chi scrive è che Kovacic possieda le qualità per diventare un protagonista di qualsiasi assetto, senza esserne per forza da subito il regista, ma con buonissime possibilità di diventare una fonte di gioco meno lineare ma non meno determinante. A 21 anni Andrea Pirlo si sbatteva in prestito fra Reggina e Brescia, in bilico fra collocazioni diverse, fra essere e non essere e avrebbe dovuto aspettare ancora un paio d'anni prima che gli venisse cucito addosso il ruolo perfetto, tanto da farne uno dei più forti al mondo per almeno 15 anni. In quella sua “natività”, giovò delle intuizioni degli allenatori (Mazzone prima, Ancelotti poi) e anche – va ricordato – di compagni di squadra capaci di “distrarre” la critica, di originare il gioco anche altrove, alleggerendo la discontinuità della gioventù: fu Baggio, per esempio, a Brescia. Fu una comitiva di campioni ad aiutarlo al Milan. Dove poi Pirlo divenne sorgente della manovra e ragione d'essere del tutto.
     
    Kovacic non è Pirlo sia detto e scritto senza inganno (appunto: non va incontro alla palla, non sembra possedere quella scintillante intelligenza calcistica), non sembra così disposto alla fluidità del gioco né per indole né per caratteristiche. Anche se ha il gusto per l'assist: dev'essere però geniale, non ordinario, non “registico”. Ma il paragone è solo anagrafico, per dire che un centrocampista “tecnico” non può essere “definitivo” a 21 anni. E Kovacic ha un controllo di palla straordinario, una fanciulla idea di dominio dell'avversario (si cerca gli avversari, per batterli), un talento sfacciato per assecondarlo, un pensiero “bello” dello spettacolo. Poteva diventare un simbolo nerazzurro. Un modo anche di rivendicare questo tentativo con un giovanotto tecnicamente squisito, tatticamente disperante. 

    Ma si è scelto la via più facile, perché i soldi hanno semplificato le cose, hanno lenito eventuali dolori, un affare dove tutto guadagnano qualcosa, l'Inter incassa il triplo, il Real non bada ai soldi e mette nel mucchio un talento, il calciatore firma un contratto superiore al suo attuale valore e aggancia a 21 anni una squadra “definitiva”. La società può spendere e saziare lo stomaco vorace del suo tecnico, e chetare i lamenti dei tifosi, qualcuno sconcertato dal mutismo d'attacco del periodo, qualcun altro dispiaciuto perché quando un ragazzo di talento parte, è sempre una sottrazione di senso. 

    Mancini, allora. È facile mettere in campo Kondogbia: in qualunque schema, fa la sua parte, macina campo e gioco. Ed è un giocatore fatto (anche se in solida crescita). È facile mettere in campo Perisic (anche se bisogna muovere la palla, sennò diventano tutte sfide personali, quelle che piacciono tanto a Jovetic, ma non fanno reparto...). È facile mettere in campo chi ha imparato a starci. Ma è incredibilmente più bello e importante riuscire a metterci un giocatore come Kovacic, e vederlo imparare, e raccogliere quello che verrà. Questo Mancini se lo è perso. E lo ha fatto perdere ai tifosi (forse, anche all'Inter). Mancini si è condannato al presente, diminuendo il senso della sua professione. 

    Marco Bucciantini

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