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    Bucciantini: Conte, perché ti lamenti?

    Bucciantini: Conte, perché ti lamenti?

    Non c’è una parola di Conte che non sia condivisibile. Anzi: non c’è una parola che non sia ovvia, saputa, già detta. Per questo è uno sfogo che racchiude in sé un’astuzia mediatica mica male: dirottare il discorso sui sempiterni guai del calcio italiano (in aggravamento per incuria). Dopo due partite di sconfortante miseria tecnico e tattica, si cambia discorso, alla svelta. L’argomento c’è, per carità. Ma non si può sfuggire sempre dal presente, non appena si intuisce che non è all’altezza delle proprie aspettative, e di quelle generate nel prossimo.

    Il calcio italiano è dunque ridotto male. Una delle sue voci più importanti lo ripete con frasario chiaro e accuse appena più velate e oscure nella direzione, non nella sostanza, che è limpida. D’accordo, Conte: se il calcio italiano fosse stato in salute, la Juventus non avrebbe vinto scudetti con 102 punti all’attivo. Uno dei mali di questo sistema è il profondo squilibrio fra posizione acquisite di vantaggio e chi non riesce a sostenere l’attività più minima e decente. L’impoverimento economico e sostanziale della Serie A produce un gruppo di squadre che non tirano in porta. E così una squadra che balbetta in Europa per motivi squisitamente qualitativi può giganteggiare in Italia. E una difesa che trasportata in azzurro ha preso gol dal Lussemburgo, Costarica, Armenia può essere imbattibile in Campionato solo perché il sistema è sfarinato, povero di idee e talenti. Se i vivai fossero rigogliosi, molte squadre avrebbero qualcosa da proporre, e argomenti per far faticare anche le squadre più forti: altro che 100 punti. E se il calcio italiano fosse almeno deambulante, non avrebbe bisogno di uno sponsor per pagare il contratto di lavoro più importante che può stipulare: quello del ct.

    C’è una punta di sorpresa nelle parole di Conte che non può essere accettabile. Quando ha firmato quel contratto, sapeva chi c’era dall’altra parte del tavolo: gente che governa questo mondo da dieci, da venti, da trent’anni. Uomini che vogliono recitare tutte le parti della commedia, ai quali siamo aggrappati più dalla suggestione di un riscatto che dalla realtà dei fatti. E allora è insopportabile il dubbio che certe parole servano adesso, servano oggi perché il commissario tecnico ha capito – senza dubbio, senza troppe speranze – non tanto che il calcio italiano sia all’anno zero, quanto che la sua Nazionale sia di pochezza infinita, e che non c’è talento da crescere, natività da aspettare. E che cotanta reputazione è a rischio: magari la Juventus continua vincere, e la Nazionale ripete gli stenti recenti. In certi casi, il cantuccio più comodo è il vittimismo: un rifugio affollato, ma il vantaggio è che nessuno può contestare i temi che Conte solleva. Questo lo ripetiamo, per onestà. E aggiungiamo che se qualcuno (ma proprio i più adulti) comincia a rimpiangere i vecchi selezionatori alla Bearzot e alla Vicini, lavoratori silenti e indefessi col materiale a disposizione, che forgiavano a mo’ di squadra, insistendo sugli stessi 20 giocatori – come si fa nei club, tra l’altro – davanti ai modernissimi allenatori che hanno trasformato da 20 anni Coverciano in un porto di mare, mille arrivano, mille partono, e viene convocato quello per amicizia, e quell’altro perché il procuratore poi ti renderà il favore, e quello poi perché lo dice lo sponsor, e quell’altro su, per fare un favore al dirigente che ti chiama 5 volte al giorno e che un domani ti aiuterà nel collocamento... Così non si lavora più su un gruppo ma su tutto quello che c’è: tra l’altro, poca roba, male distribuita. E i giorni di lavoro non bastano più, e le società sono ingombranti, tolgono spazio, aria. Certo, se le Nazionali fossero costruite più solidamente, e la selezione fosse severa, anche cinica, anche ottusa, il tempo potrebbe bastare.

    La Germania di Low è pressoché la stessa da 4 anni, per dire. E infatti gioca a memoria. Per il tedesco è più facile scegliere: pesca fra campioni. Va bene: sono verità, non alibi. Ma anche i nostri ct dovrebbero tornare a un’idea più seria, più meritocratica della Nazionale. Può darsi che Conte lo faccia, una volta testato un congruo numero di candidati. Lui stesso addita gli atleti di scarsa passione: sarà più semplice tagliarli fuori. E deve trovare il coraggio di scrivere la parola fine su certe biografie, perché anche lui può dare il buon esempio, e virare sui giovani, almeno nei ruoli dove ci sono. E insistere sul talento, anche bizzarro, perché di solo sudore non si vince, e fra le cose che non tornano nella gestione della Nazionale c’è  la classifica delle presenze, con Baggio, Riva, Totti, Rivera (per chi scrive, i quattro maggiori calciatori del dopoguerra) che non sono nei primi 25 “azzurri”: sapere che Roberto Baggio ha meno presenze di Dino Baggio è un angoscia estetica ed etica. E racconta anche un punto di vista di questo Paese che non riesce a riconoscere l’importanza del talento. Non è un discorso banale: è uno dei (tanti) malanni che hanno devastato il nostro calcio. Adesso rimontare sarà difficile, e serviranno serietà e volontà di ferro. Serviranno persone capaci e poco inclini ai compromessi, in grado di condividere le forze e di muoversi perfino con idealismo. E più stringiamo l’identikit più ci sfuggono queste persone.

    Sarà un lavoro profondo che può interessare anche Conte, a patto che non ci trascini in un peccato che già frequentiamo, da tifosi, da appassionati, da addetti ai lavori: sovrapporre il rendimento della Nazionale alla critica al sistema. Non sono i risultati dell’Italia a compilare il certificato di salute del calcio. Troppo poco, troppo comodo, troppo ingiusto e parziale. Nel 2012 sconfiggemmo i tedeschi a Varsavia, nella semifinale dell’Europeo: eppure, eravamo già lontani, per distacco. Sicuramente l’Italia è il vertice, è una vetrina (la più visibile, la più “commerciabile”). Ed è giusto che questo apice sia governato dal tecnico migliore che abbiamo. Conte si preoccupi di lavorare sodo per proporre una squadra di carattere ma anche di qualità di gioco. È un ruolo bellissimo e affascinante. E poi, al tavolo con i federali, proponga e stenda idee e soluzioni per sanare le ferite del sistema, per vaccinare ovunque sia possibile. Ha detto di volerlo fare, ma di sentirsi solo. Lasciata lì, è una frase tremenda contro i suoi datori, che dovrebbero rispondere, rassicurare, rilanciare: chissà. Tocca anche a Conte passare la nottata, ha lasciato il posto dei vincitori per scegliere quello dei vinti, stimolato dalla sfida di essere protagonista di una rinascita. Non siano due partite giocate male a fargli vedere e urlare quello che già sapeva, che già sapevamo. Non ingaggi da subito un duello con la stampa, non è posto per disperdere energie e la trincea è una logora tattica che può servire a vincere una partita, ma questa sfida è più grande.

    Marco Bucciantini

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