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    Bucciantini: la Juve non amministra bene le energie

    Bucciantini: la Juve non amministra bene le energie

    La Juventus e la Roma respirano assieme, e così sarà fino in fondo: c’è da sperarlo, per la bellezza di un torneo che manca di valori tecnici ma sta scoprendo un equilibrio nelle pur note distanze. La fatica delle Coppe è evidente: ogni centimetro di classifica bisogna sudarlo fino in fondo. La Juventus non amministra bene le energie, ma è il suo modo di vivere la partita, tentando il dominio. Tra l’altro, per un tempo riesce a farlo e metter sotto - così - la Sampdoria è facile solo in teoria: in pratica non c’è riuscito nessuno perché fisicamente è una squadra robusta e resistente, e corre molto in avanti, con tanti giocatori, anche dai lati e da centrocampo. Il primo tempo della Juventus è ottimo, ma ha il difetto ferale di tenere la Samp in partita, e Mihajlovic ha così permeato di personalità tutto il gruppo che non esiste né campo né avversario che abbia saputo ammutolire la squadra. C’è spessore, nella Samp. E così non è drammatico il pareggio, visto dalla parte bianconera: è un inciampo, da valutare nel tempo. Chissà che la sosta della Champions invece di rinvigorire faccia allentare la pressione a un gruppo che vive di adrenalina.

    Appunti, sparsi, forse non decisivi: nel forsennato ritmo di avvio conta anche la scelta di rinunciare a Pirlo, per la mediana di nerbo e di corsa. Il regista sa governare le corse dei suoi, muovendo la palla come serve, dove serve: in pratica, sa risparmiare anche la gamba dei compagni. Poi l’uso di Giovinco è cinico ai limiti dell’abuso: o è un giocatore in cui credere, da usare per vincere un match con un minutaggio decente almeno a rompere il fiato, o non serve e allora meglio evitare queste piccole umiliazioni da quattro minuti alla volta. Infine: l’attacco non può finire sotto processo (è il migliore, per quantità di gol, del campionato), ma 2 gol di media a partita sono “precisi”, altrove (inteso: all’estero) chi comanda fa assai meglio, e la media è “inquinata” dai sette gol contro il Parma. Serve qualcosa in più, soprattutto dagli spagnoli, che devono surrogare le pause di Tevez. Il primato della Juventus è ancora incardinato sulla tenuta difensiva.

    La Roma chiude bene una settimana in cui il suo valore ha subito una collocazione al ribasso. Le resta molto, a patto che torni a pensarsi più umile, a cominciare dal suo splendido allenatore, che ha gestito male il frasario e gli umori d’autunno. A Genova vanno al tiro 6-7 giocatori, come ai bei tempi. Nainggolan è in questo momento uno dei 3-4 giocatori più forti della Serie A: come già detto, la sua parte nella Roma ha ridotto quella di Pjanic, perché il belga s’intesta del palleggio verso gli attaccanti, di Strootman (supplito nelle irruzioni senza palla, ma l’olandese serve come il pane perché in Europa è stato netto il divario di tono e aggressività con le migliori) e di De Rossi, dal lato agonistico. Un centrocampista moderno, totale, forte tecnicamente e fisicamente, con una personalità dirompente che lo porta a seguire molte azioni, e segnare spesso. Il ritorno di Strootman non gli diminuirà il lavoro di manovra, e lo aiuterà nell’accompagnamento fisico delle azioni, cosa che Pjanic fa con indole intermittente e sorniona. Ma la Roma deve anche ritrovare le reti degli attaccanti: Ljajic ha nascosto lo sciopero di un reparto da numeri minimi. Nessuno sa elevarsi a protagonisti, per limiti vari e diversi, ma le squadre vincenti devono avere leader riconosciuti in ogni reparto.

    Sulle due avversarie, le squadre di Genova, onestamente continua a piacerci di più la Sampdoria, ma è un gusto personale: ha una sua cifra più evidente, un suo tracciato, una sua riconoscibilità: è una squadra maiuscola, che fa tante cose insieme. Il Genoa è più duttile, più fine tatticamente, sa cambiare pelle tanto da dominare le piccole e subire le grandi, senza troppi danni, ma è un atteggiamento anche più aleatorio, con risultati estetici più sporadici (anche se magnifici, dalle parti di Perotti). Peccato per le parole di Preziosi, smisurate in rapporto agli episodi del match, e addirittura penose nel suo mescolare vicende così diverse e si spera lontane. E come se Di Francesco e Squinzi avessero dato la colpa a Riina per la rocambolesca sconfitta di Palermo. Peccato perché il Genoa è nel mezzo, anzi, in testa alla lotta più saporita della Serie A, quella  partecipata corsa ai posti europei. Dieci squadre hanno ambizioni accresciuti dai limiti reciproci.

    Ieri ha bussato forte il Milan: la vittoria sul Napoli può essere decisiva per trovare passo, convinzione, blasone, per elevare l’organico al livello degli obiettivi massimi che i dirigenti rammentano, con poca gentilezza nei confronti del tecnico. Gli sconfitti sono un caso curioso: dopo l’avvio alterno, condizionato dai sensi di colpa per l’addio prematuro alla Champions, il Napoli aveva mostrato gioco, velocità, e due vittorie così piene e limpide contro la Roma e la Fiorentina che sembrava aver trovato assetto (con Lopez e Jorginho anziché Inler), sicurezza da esaltare l’enorme varietà tecnica dell’attacco. Macché: da allora - fu nominato lo Scudetto, attirando la iella - tre pareggi e la sconfitta di ieri sera. La verità è così ripetuta da essere chiara anche ai tifosi più ciechi: il Napoli non va d’inerzia, non conosce la discesa. È una squadra incredibilmente simile ai suoi risultati: la palla circola male, non è fluida, non va da sé verso l’attacco. A Milano per vedere palla Higuain ha dovuto cominciare a lavorare lontano dalla porta: ma chi ci guadagna? Così ogni partita è da inventare, l’equilibrio tattico è da costruire, basta un’assenza a creare un buco: ieri, Mesto sulla destra era due spanne sotto al ritmo di Bonaventura e Menez, che lì s’incontravano per tessere il gioco del Milan, per una buonissima intuizione d’Inzaghi (o per fiuto dei due). È bastato quello, ai rossoneri, che Inzaghi ha provveduto a smerigliare, togliendo il centravanti di figura (Torres), e l’attaccante esterno che non riesce ancora a tornare protagonista dentro l’area (El Shaarawy, che però deve esserci, prima o poi). Montolivo ha pulito il disimpegno, così che il gioco può essere assecondato con i tempi giusti.

    Ecco, la differenza - paradossale - è stata questa: il Milan aveva poche fonti e poca “quantità” di gioco, ma l’ha spremuta tutta. Il Napoli aveva potenzialmente più gioco, e più settori di forza, ma non c’è arrivato con i tempi giusti. Le occasioni finali sono arrivate per stanchezza del Milan, per l’evidente calo del terzetto di centrocampo. L’ingresso di Hamsik non ha dato niente di quanto serviva. Questo è un problema, non l’unico. In breve: al Napoli non sembra servire molto, molte cose si potrebbero nascondere con un’uscita di palla più sapiente. Quella sarebbe l’andatura di sicurezza. Per chi le ricorda, le splendide partite del mese scorso, perdute nella memoria, erano costruite sull’arrembaggio agonistico di tutti i reparti, ma non è una tattica eterna, e soprattutto non è spendibile contro lo squadre chiuse perché è perfetta per fortificarle, per aiutarle nello scopo (il Milan, ieri, dopo il repentino vantaggio, ha potuto impostarsi sulla difensiva, senza esagerare). È tutto visibile, da mesi, da anni. E se la società è stata inadempiente, Benitez in questo è stato sciatto, abitudinario, anche nella sua enorme bravura di insegnare una pura, spesso scintillante mentalità offensiva, europea: non ha saputo valutare le uniche difficoltà che questa misera Serie A ancora propone: quelle tattiche, quelle degli esasperati, studiati, ossessivi tatticismi. Ha saputo battere (dominare) la Juventus, la Roma, la Fiorentina perché quelle sono partite a tutto campo, a campo aperto. Quando il Napoli deve pensare la partita, farla decantare, stanarla, aggirarla, va in crisi.

    Da quelle parti, l’Udinese è troppo avara per accumulare punti, mentre la Lazio è un assortimento credibile, con un gioco produttivo al quale difetta talvolta il tono agonistico, mal diffuso fra i vari reparti. Nell’interpretazione dei ruoli, però, è un bignami della perfezione. La Fiorentina continua a mettere insieme buoni segnali, anche se mancano quelli dal centravanti, ormai sul crinale dell’imbarazzo. Nelle cinque partite con la difesa a tre, la Fiorentina ha guadagnato 13 punti su 15: non c’è bisogno di commentare questa media. Montella ha ritrovato la sua preziosa manovra da quando ha chiesto a Mati Fernandez di condividere il lavoro con Pizarro e Borja, togliendolo dalla tre quarti, dove non sapeva produrre. Perfino la Juventus soffrì questo dominio tecnico, figuriamoci il Cesena (che è parso cliente abusivo della Serie A). I viola sono tornati a macinare il loro calcio, i difensori sono così rasserenati che vanno perfino a segnare e così Gomez può continuare a sbagliare: il tedesco è dominante, ma è lacunoso proprio nelle doti che lo incastrerebbero dentro la sua squadra. Dovrebbe essergli rimasto poco tempo: con Cuadrado, Babacar, Rossi e Marin, Montella dispone di gente di valore che può anche esaltare il suo gioco assai meglio di Gomez. Questo elenco per intuire i margini di crescita di una squadra che difende tenendo palla, e spostandola ovunque, ma che non può vivere di certezze, bensì solo di speranze: la più eccitante è che dal 2015 Pepito Rossi torni al suo mestiere.


    Marco Bucciantini
     

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