Bosco: 23 anni senza Brera. Retroscena e ricordi del fuoriclasse del giornalismo
Era un profondo conoscitore di calcio. E di sport. Sostenendo l'inferiorità fisica degli italiani, rispetto alla cultura del corpo degli atleti del nord Europa cantava le gesta del “catenaccio” e delle “squadre femmina”. Quel catenaccio che era stato inventato dagli svizzeri negli anni Trenta e poi adottato in Italia da Gipo Viani e Nereo Rocco. Paternità mai definitivamente attribuita, se è vero che Nereo Rocco in una delle sue ultime interviste (al “Corriere d'Informazione”) mi disse: “Ciò, Gipo disi che xe sta lù. Ma mi no' credo, mi penso de essere sta', per primo, mi, a cavar un attaccante e a metter un difensor in più”.
Se Gioanbrerafucarlo avesse letto “La vita è un pallone rotondo” nel quale l'autore Vladimir Dimitrijevic sostiene che il “catenaccio” lo aveva portato in Italia, Helenio Herrera avrebbe pestato i pugni sul tavolo. Accaccone come lo chiamava lui, aveva copiato dagli italioti per forgiare quell'Inter: “Sarti, Burgnich, Facchetti eccetera” la cui formazione, anche i tifosi non interisti conoscevano a memoria. Pochi lo sanno, ma Brera prima dell'ingaggio del “mago, taca la bala” aveva inutilmente cercato di convincere Angelo Moratti a prendere all'Inter, Nereo Rocco.
Beh, l'aedo di San Zenone Po se n'è andato 23 anni fa, il 19 di dicembre, in una maledetta strada tra Maleo e Casalpusterlengo vittima di un incidente stradale. Racconta Gianni Mura - il giornalista che forse di più ha cercato di far “continuare” lo stile di Gianni Brera - che ogni volta che andavano all'estero lui era, a volte più degli stessi giocatori, l'uomo più intervistato dai media locali. Del resto, uno che in un Austria – Italia, al Prater di Vienna scrisse che “Rivera, inciampava nelle primule” era uno davvero speciale. Un aedo, da ascoltare. Già, Rivera, l'abatino. Il termine lo aveva coniato originariamente per Livio Berruti. Poi per “associazione” abatini, diventarono molti di quella Nazionale dopo il fattaccio con la Corea al Mondiale inglese. E se Riva era “Rombo di tuono”, Heriberto Herrera era Accacchino. Credo che solo Gabriele D'Annunzio che coniò tra l'altro il nome “Azzurri” per la Nazionale, abbia inventato tanti neologismi quanti Brera. Uno su tutti Eupalla, felice crasi tra greco e italiano per indicare la Dea, protettrice del calcio.
Non basterebbe un libro per raccontare di Gianni Brera e del suo lavoro. Del suo contributo a quotidiani come la Gazzetta dello Sport, il Giorno, il Giornale, La Repubblica. Dei suoi romanzi. Tradotto in varie lingue e in vari Paesi. Dei suoi pronostici (sbagliati) e delle sue promesse, sempre onorate: dopo il Mundial di Spagna si fece fotografare “monaco espiante”, con saio e sandali davanti a un celebre monastero iberico. Gli hanno intitolato l'ex Arena di Milano e alcuni Palasport.
Gli è stata risparmiata Calciopoli e poi Scommessopoli. Brutte storie giravano anche ai suoi tempi. Ma erano episodiche, raffreddori, non metastasi come quelle, appurate in tempi recenti, e meno recenti. Io credo, che Giovanni Brera, detto Gianni, sia finito nel Paradiso degli sportivi. Come gli spettava, per una vita dedicata allo sport che più amava: il football. Assieme a quelli che prediligeva e che con lui avevano condiviso glorie e dolori. Come Pepin Meazza, uno che come dicono a Milano, in campo “accendeva la luce” e che lui aveva, come pochi altri, amato da giocatore. Come, il Paròn, Nereo Rocco del quale era sincero amico. E se da qualche nuvoletta, dovesse arrivare fino alla Terra, il ticchettio di una macchina da scrivere, beh, probabilmente è Gioanin Brera, che l'immancabile QB tra le labbra, dà di carrello.
Andrea Bosco