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Boninsegna: 'Via dall'Inter per Mazzola. Nel '70 con Rivera in campo avremmo vinto. Icardi come me, la combine del '74...'
COME TUTTO EBBE INIZIO – "Un giorno al campetto parrocchiale venne un distinto signore che, dopo avermi visto giocare, mi chiese se mi sarebbe interessato fare un provino con l’Inter. Io, da tifoso nerazzurro, pensai che mi stesse prendendo in giro: certo che mi interessava. Gli diedi l’indirizzo di casa e gli dissi di parlare con mio padre. Lo fece. Andai a due provini. Mi presero, per due anni feci la spola tra Milano e Mantova. Avevo tredici anni. Poi mi dissero che, siccome andavo bene, volevano che mi fermassi a risiedere in foresteria. Ci fu un dramma, in famiglia. Ero figlio unico, ero un bambino. Mia madre non era d’accordo. Ma alla fine, tra le lacrime, cedette. Ma anche io piangevo spesso, mi pesava la solitudine. E allora fuggivo, ogni tanto fuggivo. Vivevo in una stanza con altri ragazzi, c’era anche Bedin tra loro. Pensi che io avrei dovuto esordire in serie A in quella partita tra la Juve di Sivori e i ragazzi della Primavera che l’Inter, per protesta, mandò a giocare invece dei titolari. Ma quel giorno, mentre perdevamo nove a uno e Mazzola segnava il primo gol vero della sua vita, io stavo guardando la campagna, sul treno che mi riportava, fuggiasco, a casa dai miei".
LA TRAFILA IN GIRO PER L’ITALIA ED IL RITORNO ALL’INTER – "Avevamo vinto il torneo di Viareggio, eravamo un gruppo di ragazzi molto forti, c’erano Mazzola e Petroni. Loro avevano un anno in più e furono chiamati in prima squadra. Herrera volle che io invece andassi in giro per l’Italia. Fui mandato a Prato e poi a Potenza. Dove, peraltro, sfiorammo la serie A. Ero in coppia con un bel giocatore, Bercellino II, che era in prestito dalla Juve. Lui fece diciotto gol e io dieci. Fu un anno bello, anche se non vedemmo una lira. Tornai a Milano con un bel mazzetto di cambiali e con il naso sfasciato da una gomitata. Per quanto riguarda le cambiali, comunque, Allodi mi disse di consegnargliele che avrebbe risolto lui. Non ne ebbi più notizia… Ma neanche quella volta restai all’Inter, mi mandarono a Varese. Giocavo ala sinistra perché il centravanti era Combin. Non eravamo male, ma fu un campionato sfortunato. Con noi giocavano Ossola e Maroso, i figli di due delle vittime dell’incidente di Superga. Ma finito quel torneo, siamo nel 1966, continuò il mio esilio da Milano, stavolta a Cagliari. Sembrava che l’Inter di Herrera, che in quel periodo vinceva tutto, proprio non mi volesse. Il primo impatto con la squadra lo ebbi in Toscana, dove la squadra era in ritiro. Era una rosa di tutto rispetto. C’erano Riva, Rizzo, Cera, Niccolai. Mi sono trovato benissimo, forse è il periodo di cui ho maggior rimpianto. Vivevo in foresteria, dividevo la stanza con Gigi. I primi due anni eravamo come fratelli. Al terzo mi sono sposato. Ma il rapporto di amicizia è rimasto lo stesso, fino ad oggi. Devo essere sincero, in campo ci mandavamo a quel paese spesso ma non volentieri. Tutti e due eravamo preferibilmente mancini ma io, che capivo la sua grandezza, mi sacrificavo a giocare nel centro destra. Insomma eravamo forti, volevamo segnare tutti e due e questo creava qualche tensione. Nulla di grave. Dopo tre anni magnifici, Scopigno mi chiamò e mi disse: “C’è un problema. Qui ci sono due giocatori che possono essere venduti per fare cassa, tu e Riva”. Io, sapendo che Gigi non si sarebbe mai mosso dalla Sardegna, capii che toccava a me. Però chiesi, come condizione, di essere venduto all’Inter. Mi accontentarono e così rientrai, dalla porta principale.
IL RAPPORTO CON MAZZOLA – “Siamo cresciuti insieme nelle giovanili. Durante una trasferta della Nazionale, in Germania Est, io, che allora giocavo nel Cagliari, gli dissi che mi sarebbe piaciuto tornare all’Inter. Credo che lui si adoperò perché questo accadesse. Era un grande trequartista, per me il migliore del mondo dopo Cruyff. Era anche capace di finalizzare in rete e gli piaceva molto farlo. Con Sandro il rapporto si è incrinato negli ultimi anni in cui abbiamo giocato. Lui voleva fare il regista e io pensavo che non fosse quello il suo ruolo. Discutemmo di questo. La mia sincerità mi costò il trasferimento dall’Inter, ancora una volta. Ero a Forte dei Marmi, a pranzo, d’estate. Mi chiamò Fraizzoli e mi disse che dovevo andare alla Juventus. “Ci vada lei, alla Juve”, gli risposi. E aggiunse, come per giustificarsi, che in società si pensava che fosse opportuno acquistare un centravanti di movimento e non un regista. Io capii che Sandro aveva avuto un ruolo e mi dispiacque. Ma non tutto il male venne per nuocere”.
IL RISCATTO ALLA JUVE – “Mi avevano scambiato con Anastasi, che aveva cinque anni meno di me. Fui accolto con scetticismo e da parte nerazzurra mi diedero del traditore. Ma per me la Juve non fu la casa di riposo dove svernare. Vincemmo due scudetti e una Coppa Uefa, il primo torneo internazionale della storia bianconera. Feci trentacinque reti. Ma Trapattoni non mi amava particolarmente. Mi ricordo che a Bilbao mi tolse a metà del secondo tempo e l’anno dopo, col Bruges, non mi fece entrare in campo. O non mi faceva giocare o mi sostituiva. Quando non sapeva chi togliere, toglieva me. Ricordo che quando vincemmo la Coppa Italia a Napoli mi fece entrare al cinquantesimo, perdevamo uno a zero. Vincemmo due a uno. Quella sera mi fermai a parlare due ore con Boniperti. Lui voleva che restassi, io gli descrissi la situazione. Lui, che stimava il Trap e voleva che continuasse ad allenare la squadra, mi disse: “Ti capisco Bonimba, il cartellino è gratis, te lo meriti per quello che hai dato alla Juve”. Fu un vero signore”.
ESPERIENZA AZZURRA, MONDIALI 1970 – “Io non ero stato convocato nei ventidue. Ma ero ben allenato e in forma. Anastasi, le nostre storie sono sempre intrecciate, ebbe un’appendicite e mi chiamarono. In Nazionale, a quei tempi, comandava totalmente Mandelli. Il mio rapporto con Valcareggi non era idilliaco. In verità avevo esordito nel 1967 ma poi ebbi una lunga squalifica che compromise la mia presenza agli Europei del 1968. Quando sbarcai in Messico pensavo che avrei fatto la riserva. Invece giocai tutte e sette le partite e segnai sia nella mitica semifinale con la Germania che nella finale col Brasile. Con la Germania ci difendemmo all’italiana dopo aver segnato e ce l’avevamo quasi fatta. Poi al novantesimo segnò Schnellinger, inopinatamente in attacco. Rivera, che era suo compagno di squadra, gli chiese, a fine partita, “Che diavolo ci facevi nella nostra area?”. Lui rispose, scherzando, che passava di lì andando negli spogliatoi. Fatto sta che è grazie, o a causa, di quel gol che quel match è passato alla storia. Sa chi era il giocatore tedesco che preferivo? Un genio misconosciuto e dimenticato: Wolfgang Overath, lo chiamavamo “pennello” per la capacità, con quel mancino, di fare dei lanci millimetrici. Cosa penso della famosa staffetta? Una delle più grandi sciocchezze immaginabili nel calcio. Quando Pelè lesse la formazione della finale disse sorridendo: “Si permettono di lasciare Rivera in panchina? E’ il pallone d’oro”. Per me l’ideale sarebbe stato, in tutto il torneo, giocare come negli Europei che avevamo vinto, con Mazzola ala destra e Rivera numero dieci. E’ quello che Valcareggi avrebbe dovuto fare anche nel secondo tempo col Brasile. Era quello che ci aspettavamo nello spogliatoio. Guardi che fino al ventesimo del secondo tempo abbiamo retto molto bene. Domenghini era comprensibilmente stanco, come tutti noi. A quel punto i supplementari della semifinale, quei supplementari, si fecero sentire. Io avrei spostato Mazzola sulla fascia destra e fatto entrare il golden boy. Invece Valcareggi chiese di uscire a Mazzola, che lo mandò a stendere e alla fine sostituì me. La verità è che prima della Germania i nostri dirigenti avevano già fatto la valigia. Dovettero disfarla e pensarono che andasse bene così, in fondo mai un’europea aveva vinto campionati del mondo giocati in Sudamerica. Se non avessimo avuto la stanchezza della semifinale e se avesse giocato Rivera sarebbe stata un’altra storia".
GERMANIA 74, IL TENTATIVO DI COMBINE – “Successe quello che i miei compagni di squadra le hanno raccontato nelle interviste che le hanno rilasciato. Divisione tra Nord e Sud, guerra contro Rivera, debolezza assoluta della dirigenza. Prima che iniziasse la spedizione ci avevano detto che il rigore sarebbe stato assoluto, che chi avesse sbagliato sarebbe andato a casa, senza distinzioni di sorta. Fatto sta che Chinaglia mandò platealmente a quel paese Valcareggi che lo aveva sostituito con Haiti e quella notte non tornò a dormire nell’albergo. Ed è vera la storia della rivolta di una parte della squadra contro Rivera, la storia dell’assemblea in treno. Noi ci aspettavamo che Chinaglia fosse punito. Quando vedemmo che lo fecero giocare nella seconda partita, lo spogliatoio crollò. Contro la Polonia? La verità è che noi scendemmo in campo abbastanza tranquilli. A loro bastava un pareggio, a noi anche. Invece quelli erano indemoniati, volevano vincere, correvano e picchiavano come matti. Io giocai, inutilmente, il secondo tempo, quando perdevamo già due a zero. Recentemente Burruchaga, il centrocampista dell’Argentina, ha rivelato che furono loro a pagare i polacchi perché ci battessero, per consentire la loro qualificazione. Quanto alle voci che riguardano noi, posso dirle la sola che conosco direttamente, Anastasi mi raccontò che alla fine del primo tempo un nostro dirigente gli disse di andare dal portiere polacco, Tomaszewski, per convincerlo a farci segnare. Non so come possa averlo fatto, vista anche la differenza linguistica… Ma è l’unica cosa che è giunta alle mie orecchie. Fatto sta che quelli non mollarono fino alla fine e vinsero”.
ICARDI MI SOMIGLIA, CHE TALENTO PAVOLETTI - "Io ero un classico centravanti d’area, che fornisce alla squadra riferimento e profondità. Che finalizza molto. Mi erano simili Vieri, Casiraghi. Oggi Icardi. E poi mi piace Pavoletti. Non lo conoscevo. Secondo me è un talento. Il problema è che i ragazzi italiani giocano poco e arrivano in prima squadra tardi".