Bernardini: un po’ Sarri e un po’ Rivera, è l’Alessandria che sogna in grande
Capirete perché l’altro giorno non sono riuscito a frenare un improvviso senso di goduria vedendo quel che era accaduto al “Barbera” di Palermo con l’Alessandria la quale aveva messo sotto i ben più ricchi giocatori di un legittimamente incazzato Zamparini. Mica per antipatia verso la squadra siciliana, che mi è simpaticissima, ma per senso di grande onore alla memoria e a quel giorno di venti anni fa nella terra delle grandi nebbie. Un posto delle fragole, per il calcio e per i suoi autentici appassionati, quello che geograficamente forma il quadrilatero Novara-Casale-Vercelli-Alessandria. La sana provincia piemontese che, per anni e prima dell’avvento del pallone drogato dal denaro, veniva definita da tutti i critici “L’università del calcio”. E l’Alessandria, intesa come società e squadra, era il faro centrale e più luminoso di quell’evento sospeso tra sport e costume.
Alessandria, certamente, vuole dire Gianni Rivera ovvero un campione pensante e senza eguali del calcio italiano. Significa la storia di un ragazzino di borgata, figlio di un ferroviere e della brava casalinga Edera, capace di cambiare radicalmente il corso di una pagina che pareva già scritta per la famiglia Rivera. Cambiarla con le sue mani. Pardon con i suoi piedi, specialmente con quel sinistro fatato, che gli avevano permesso di esordire già con la maglia grigia numero 10 a sedici anni in amichevole contro una squadra svedese ed essere notato da un maestro come Gipo Viani che gli fece firmare subito un contratto con il Milan. E lui, nel 1969 in rossonero vinse il Pallone d’Oro. Ma questa è solo la copertina di un romanzo a sé molto speciale che conoscono anche i bambini. Sotto la punta dell’iceberg riveriano, infatti ci stanno tantissime altre vicende squisitamente “mandrogne” i cui protagonisti potrebbero tranquillamente essere personaggi di una favola.
Perché ci fu un tempo che l’Alessandria mica le mandava a dire per lettera agli avversari. Il Moccagatta era una tana dalla quale in pochi uscivano con le ossa in ordine, metaforicamente parlando naturalmente. Un maestro inglese in panchina, Arthur Smith, e giocatori come Bertolini, Borel, Carcano, Baloncieri, Ferrari, Rava, Tagni, Giacomazzi, Cappellaro, Ferretti destinati a scrivere pagine importanti di storia calcistica. Come quella di un giorno del 1968 quando al Moccagatta, per un’amichevole, arrivò il Santos di Pelè. Vinsero i brasiliani, naturalmente, ma il Grande Paulista uscì dal campo con la maglia numero 10…grigia che si era fatto dare da chi aveva tentato di marcarlo. Poi ci fu il declino, per ragioni economiche e per elefantismo del calcio o anche soltanto perché sta scritto nelle stelle che le cose debbano andare in un certo modo mortificando le favole.. Ora con il presidente Luca Di Masi pare decisamente andare meglio e c’è chi sogna una nuova primavera in grigio. E probabilmente ha ragione. Anche perchè, tre anni fa seure per una sola stagione, l’Alessandria è stata allenata e istruita da Sarri. Proprio lui, il nuovo mago di Napoli che oltre a essere bravo pare porti anche fortuna.
Marco Bernardini