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Quella notte a Mosca con Diego
Con Diego addosso, nel giorno del suo compleanno. Mi piace riviverlo così, el pibe, sentendolo sulla pelle e poi, via via, dentro l’anima proprio come accadde una notte che sembrava finire mai a bordo di un jet privato in volo da Napoli con destinazione Mosca. Venticinque anni fa, il sei novembre se ricordo bene. Con Maradona, grazie alla mediazione "sudamericana" del mio collega-fratello Darwin Pastorin, ero riuscito a stringere un rapporto che andava ben oltre il dovere professionale fin dai primi giorni dopo il suo arrivo da Barcellona.
Piero Dardanello, direttore indimenticabile di uno storico Tuttosport, mi aveva praticamente trasferito a Napoli per seguire vita e miracoli (sportivi e non) del campione che, strada facendo, aveva persino oscurato la figura del "mio" grande e unico Omar Sivori. Le mattine a Soccavo dove si allenavano gli azzurri, i pomeriggi a scrivere nella camera dell’hotel Vesuvio affacciata sul Castel dell’Ovo, le serate a cena da Mimì alla Ferrovia piuttosto che a Mergellina dove Luciano Moggi era l’anfitrione. Spesso, ma soltanto per i primi tempi, insieme con Ciro Ferrara e Salvatore Bagni un fine serata in via Scipione Capece dove, ‘n coppa a Posillipo, vivevano Diego e Claudia. Un infuso di mate, come ogni buon argentino degno di rispetto, poi tutti a nanna.
Fino a quando, cioè troppo presto, quei piccoli raduni di sana e allegra convivialità non si ridussero fino a esaurirsi. Diego, sempre più spesso, aveva altro da fare e cose diverse alle quali pensare. Soltanto poco prima della fine annunciata si scoprì quali erano quelle cose. Come quella mattina di novembre a Capodichino con l’aereo pieno di giocatori e di dirigenti del Napoli fermo sulla pista in attesa di alzarsi in volo direzione Mosca. Un posto vuoto, nelle prime file. Quello in cui avrebbe dovuto trovarsi Maradona.
“Non sta bene, non può partire” rispose Claudia a Luciano Moggi dopo l’ennesima telefonata. "Ci penso io" disse Ferrara e insieme con Zazà Carmando, il massaggiatore-confidente di Diego, e lo stesso Moggi si precipitò con un taxi a casa del pibe. Missione fallita. I tre fecero ritorno, dopo un paio di ore, come erano partiti. Il campione era rimasto a letto in uno stato penoso. E non per il male alla schiena. Moggi era furibondo. Ferrara bianco come un cencio. Carmando con le lacrime agli occhi. L’aereo partì finalmente per Mosca dove ad attendere il Napoli c’era lo Spartak. “Tu resti a Napoli a seguire Maradona”, mi venne ordinato da Torino. Dardanello aveva fiuto da vendere e intuito in overdose.
Nel pomeriggio si seppe che Diego, pentito, sarebbe andato a Mosca viaggiando la sera con un aereo privato noleggiato a sue spese. Per intercessione di qualche santo, della fortuna e di Carletto Juliano inimitabile addetto stampa che ora non c’è più, presi posto anche io su quel volo. Ore che non dimenticherò mai e discorsi che terrò sempre per me nello scrigno delle preziose cose umane. Diego era come un autentico vaso di Murano di vetro soffiato, fragile e tenero come un Peter Pan che avrebbe voluto volare via tra le stelle di quella notte lumino da non credere. Per questo non ho mai scritto, detto e raccontato dell’uomo al quale, dopo averlo sentito parlare di sé e delle sue trionfali tribolazioni, giurai e me stesso che gli avrei sempre voluto bene. A prescindere.
Arrivammo a Mosca. Moggi aveva ordinato ai giocatori di ignorare Diego per punizione. Ferrara non riuscì, Carmando neppure e lo abbracciarono. Poi, via via, tutti. Dopo venticinque anni ho ancora negli occhi, ben nitide, fotografie speciali. Maradona, in pelliccia sotto la neve di mezzanotte, che si fa aprire la Piazza Rossa blindata per una sfilata militare del giorno dopo e che firma autografi ai soldati. Maradona in panchina avvolto in un plaid di lana con gli occhi persi oltre il campo dove si gioca. Maradona che va in campo, su ordine di Bigon, soltanto per battere un inutile rigore. Poi la scaletta che porta al tunnel. La porta dell’inferno che si apre per inghiottirlo. Diego era morto. Diego è vivo. Buon compleanno amico mio.
Marco Bernardini
Piero Dardanello, direttore indimenticabile di uno storico Tuttosport, mi aveva praticamente trasferito a Napoli per seguire vita e miracoli (sportivi e non) del campione che, strada facendo, aveva persino oscurato la figura del "mio" grande e unico Omar Sivori. Le mattine a Soccavo dove si allenavano gli azzurri, i pomeriggi a scrivere nella camera dell’hotel Vesuvio affacciata sul Castel dell’Ovo, le serate a cena da Mimì alla Ferrovia piuttosto che a Mergellina dove Luciano Moggi era l’anfitrione. Spesso, ma soltanto per i primi tempi, insieme con Ciro Ferrara e Salvatore Bagni un fine serata in via Scipione Capece dove, ‘n coppa a Posillipo, vivevano Diego e Claudia. Un infuso di mate, come ogni buon argentino degno di rispetto, poi tutti a nanna.
Fino a quando, cioè troppo presto, quei piccoli raduni di sana e allegra convivialità non si ridussero fino a esaurirsi. Diego, sempre più spesso, aveva altro da fare e cose diverse alle quali pensare. Soltanto poco prima della fine annunciata si scoprì quali erano quelle cose. Come quella mattina di novembre a Capodichino con l’aereo pieno di giocatori e di dirigenti del Napoli fermo sulla pista in attesa di alzarsi in volo direzione Mosca. Un posto vuoto, nelle prime file. Quello in cui avrebbe dovuto trovarsi Maradona.
“Non sta bene, non può partire” rispose Claudia a Luciano Moggi dopo l’ennesima telefonata. "Ci penso io" disse Ferrara e insieme con Zazà Carmando, il massaggiatore-confidente di Diego, e lo stesso Moggi si precipitò con un taxi a casa del pibe. Missione fallita. I tre fecero ritorno, dopo un paio di ore, come erano partiti. Il campione era rimasto a letto in uno stato penoso. E non per il male alla schiena. Moggi era furibondo. Ferrara bianco come un cencio. Carmando con le lacrime agli occhi. L’aereo partì finalmente per Mosca dove ad attendere il Napoli c’era lo Spartak. “Tu resti a Napoli a seguire Maradona”, mi venne ordinato da Torino. Dardanello aveva fiuto da vendere e intuito in overdose.
Nel pomeriggio si seppe che Diego, pentito, sarebbe andato a Mosca viaggiando la sera con un aereo privato noleggiato a sue spese. Per intercessione di qualche santo, della fortuna e di Carletto Juliano inimitabile addetto stampa che ora non c’è più, presi posto anche io su quel volo. Ore che non dimenticherò mai e discorsi che terrò sempre per me nello scrigno delle preziose cose umane. Diego era come un autentico vaso di Murano di vetro soffiato, fragile e tenero come un Peter Pan che avrebbe voluto volare via tra le stelle di quella notte lumino da non credere. Per questo non ho mai scritto, detto e raccontato dell’uomo al quale, dopo averlo sentito parlare di sé e delle sue trionfali tribolazioni, giurai e me stesso che gli avrei sempre voluto bene. A prescindere.
Arrivammo a Mosca. Moggi aveva ordinato ai giocatori di ignorare Diego per punizione. Ferrara non riuscì, Carmando neppure e lo abbracciarono. Poi, via via, tutti. Dopo venticinque anni ho ancora negli occhi, ben nitide, fotografie speciali. Maradona, in pelliccia sotto la neve di mezzanotte, che si fa aprire la Piazza Rossa blindata per una sfilata militare del giorno dopo e che firma autografi ai soldati. Maradona in panchina avvolto in un plaid di lana con gli occhi persi oltre il campo dove si gioca. Maradona che va in campo, su ordine di Bigon, soltanto per battere un inutile rigore. Poi la scaletta che porta al tunnel. La porta dell’inferno che si apre per inghiottirlo. Diego era morto. Diego è vivo. Buon compleanno amico mio.
Marco Bernardini