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    Atalanta-Valencia, la partita che ha scatenato il contagio: birra in comune e metro piene, ecco quello che è successo

    Atalanta-Valencia, la partita che ha scatenato il contagio: birra in comune e metro piene, ecco quello che è successo

    • Marina Belotti
    Era una grande festa. Il giorno zero, quello che stando all’unità di crisi della Protezione Civile potrebbe corrispondere all’innesco di una bomba letale, tutti si abbracciavano e ridevano, inconsapevoli. Di lì a una settimana quella granata silenziosa sarebbe esplosa tanto a Valencia quanto a Bergamo, mietendo le prime vittime. Eppure non ho mai respirato così tanta vita come in quella sera del 19 febbraio a Milano. Il Meazza, così maestoso e imponente, quasi scompariva nella bolgia dei 45mila che si erano dati appuntamento al famoso gate 12 come alla Vigilia di Natale. Si scambiavano abbracci a più non posso, pronostici sussurrati all’orecchio per non portare male, i bambini si stringevano ai genitori tanto da calpestarli, perché l’ondata nerazzurra era così potente da rischiare di perdersi tra una bancarella e l’altra. E poi d’improvviso, come un fiume in piena, sono comparsi anche loro: i valenciani.
     
    A MENO DI UN ‘METRO’- Tutto è cominciato sulla metro. Quando mi sono incamminata verso la linea 5, di un viola di cattivo presagio ma che allora era solo il colore del tramonto prima di un match storico, ho dovuto attendere un secondo convoglio. Ero in buona compagnia di bergamaschi come me, alcuni per la prima volta allo stadio con i mezzi per paura di non trovare parcheggio. Avevano chiuso la bottega di famiglia all’ora di pranzo esponendo un cartello: ‘Vado a San Siro perché si farà la Storia’, una storia che avrebbe riempito poche pagine di sport e troppe di cronaca. All’arrivo della seconda metro con la scritta ‘San Siro Ippodromo’ ci siamo accatastati l’uno sull’altro, per arrivare in tempo alle fatidiche ‘due ore prima’ dell’ora zero. Troppo stretti, a ripensarci, troppo vicini, col senno di poi, alla carrozza confinante occupata da centinaia di spagnoli. Tra loro, probabilmente, più di un contagiato da quel Coronavirus che già da sei giorni aveva messo radici nel Sud della Spagna, come evidenziato poi dalle autopsie nella regione valenciana. Mi ricordo i cori urlati a squarciagola per tutto il tragitto, che rimbombavano nell’ambiente chiuso e soffocante della metropolitana, i fischi e gli slogan contro l’Atalanta, i ‘buu’ dei nerazzurri di rimando che piano piano si avvicinavano ai giallorossi. All’uscita, lungo le scale intasate della stazione d’arrivo, qualcuno si è calmato, ha scambiato il gagliardetto, ha posato per una foto ricordo. E alcuni, me lo ricordo bene perché mi è rimasto impresso, si passavano lo stesso bicchiere di birra prima di offrirlo a degli ultras bergamaschi di passaggio, brindando alla comune serata da sogno. Ma in comune, settimane più tardi, avrebbero avuto solo un incubo.
     
    TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE - Sono stata per più di un’ora, dalle 18.30 alle 20, in quella terra di mezzo abitata da poliziotti che ogni 5’ fermavano il serpentone nerazzurro per far passare, in uno spazio ristretto, i tifosi del Valencia. Si temevano scontri, ero pronta a documentarli, tra i valenciani più caldi gemellati con la Curva Nord dell’Inter e gli ultras atalantini. La partita era stata definita ‘ad alto rischio’, ma per la motivazione sbagliata. Non ci fu pressoché nulla, anzi, i tifosi dei Murcielagos si mischiarono come niente ai seguaci della Dea, consumando pane e salsiccia sotto le stesse bancarelle, acquistando la sciarpa-evento dagli stessi ambulanti. Ho persino indicato la via del settore ospiti a una coppia di Valencia che si era persa. Tutti insieme, appassionatamente, nell’ampio spiazzo di San Siro diventato improvvisamente stretto al passaggio di 43mila bergamaschi e 2500 valenciani. Un assembramento più grande non poteva esserci. Soprattutto di anziani, i più fragili sì, ma anche quelli che dopo aver seguito per anni la Dea in Serie C e in Serie B a quell’appuntamento con la Storia proprio non volevano mancare.

    DA VALENCIA CON...ERRORE- Poi sono entrata nella sala riservata alla stampa, umida e oberata di giornalisti, tutte le postazioni già occupate. Ricordo di aver incrociato al buffet Kike Mateu, il giornalista valenciano risultato poi positivo al Coronavirus. Del resto era inevitabile venire a contatto gli uni con gli altri, tra i bagni, i banchi con i computer e la paella servita in fila. Una settimana più tardi Mateu veniva ricoverato in ospedale. Troppo presto per essersi contagiato a Milano, più probabile - come emerge ora dalle ultime ipotesi della Protezione Civile- che il contagio l’avesse in valigia dall’aeroporto di Valencia. Insieme a tanti altri portatori sani che quella sera, tra strette di mano e abbracci, si salutarono anche finita la gara. Il viaggio di ritorno seduti vicino, l’abbraccio consolatorio e lo scambio di numeri per rivedersi al Mestalla, a due passi da quella trattoria dove fanno la paella più buona di tutte. Un invito che è rimasto però a senso unico. Perché io c’ero il 19 febbraio e, solo per un soffio, non ci sono stata anche quel 10 marzo, tra migliaia di valenciani incoscienti radunatisi dopo cena attorno al Mestalla per sostenere Gameiro&Co. Solo perché il mio aereo, che doveva decollare alle 9 di domenica, è stato anticipato di una manciata di ore dal decreto che ha stabilito la Lombardia ‘zona rossa’. Altrimenti sarei stata investita in pieno da un altro ‘pazzo’ assembramento. Molto più grave, questo, perché avvenuto dopo, con la tragedia già in atto a Bergamo e a Valencia, quando tutti erano consci del pericolo. Una seconda bomba che, a differenza della prima, poteva essere disinnescata.

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