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L'Arabia Saudita come il Qatar, viola i diritti umani: Lega, Milan e Inter, è la 'Supercoppa del denaro'
L’Arabia Saudita è, come il Qatar, uno dei Paesi in cui i diritti umani sono violati. Negli ultimi due mesi, sono state eseguite diciassette condanne a morte e spesso questa ed altre pene sono state comminate senza regolare processo. La libertà d’espressione è stata duramente limitata e molti difensori dei diritti civili sono stati incarcerati e condannati.
Quanto alle pene, oltre a quella capitale, esistono quelle corporali che vanno dalla fustigazione per omosessuali e giocatori d’azzardo al taglio delle mani e dei piedi per i ladri.
Le donne sono fortemente discriminate. Per esempio, devono avere un tutore maschio per viaggiare all’estero, sposarsi, essere sottoposte ad un intervento chirurgico, ma anche e più semplicemente per aprire un conto in banca.
L’attività sessuale al di fuori del matrimonio eterosessuale è illegale. La punizione per la sodomia, anche eterosessuale, va dall’arresto alle frustate, dalla deportazione per gli stranieri alla pena di morte.
Per quanto riguarda la libertà religiosa sono proibite tutte le religioni tranne l’Islam. Per quelle politiche, invece, il governo vieta l’uso della televisione satellitare e limita la libertà di stampa e parola per impedire le critiche all’establishment.
Per reperire questi ed altri agghiaccianti dati sull’Arabia Saudita non serve un corso di geopolitica internazionale, basta fare una piccola incursione su Wikipedia o la Treccani. Leggere per credere, anche se sulle condizioni dei Paesi del Golfo Persico, tutti ormai sanno tutto anche solo guardando e ascoltando tv e radio generaliste.
L’Arabia è lo Stato più grande del Golfo e confina con il Qatar non solo geograficamente, ma anche culturalmente. E in Qatar, sia prima dell’inizio dei Mondiali, sia durante, la questione relativa al grande capitolo dei diritti è stata posta al centro del dibattito, risultando a volte prevalente rispetto al massimo evento calcistico.
La domanda, dunque, è semplice: possibile che in questo clima generale e con un’attenzione così spiccata per i temi socio-politico-umani, il presidente della Lega, Lorenzo Casini, abbia avallato proprio mercoledì la decisione di far ospitare la Supercoppa all’Arabia Saudita?
Naturalmente conosciamo la risposta prosaica: con l’Arabia è stato stipulato un contratto triennale e, dopo le edizioni del 2018 e 2019, le successive si sono svolte in Italia causa pandemia. Tornare in Arabia, perciò, significa solo rispettare un contratto che, va detto, sarebbe precedente alla gestione Casini.
Sia come sia, l’Arabia Saudita era alla 159sima posizione (su 167 Paesi passati al setaccio dal Democracy Index) anche nel 2019 e ciò avrebbe consigliato, allora come adesso, prudenza sulla scelta della sede.
Quel che non si dice, ma tutti ovviamente sanno, è che si va a giocare in Arabia, come prima a Pechino e a New York, perché gli organizzatori locali riempiono letteralmente di soldi la Lega e le squadre che partecipano alla finale.
Ma è lecito, anche a livello di immagine, visto quello che sta accadendo in Qatar e visti gli attacchi duri e concentrici che piovono sulla Fifa, battere solo ed esclusivamente la strada del danaro per riempire le casse, esponendosi a critiche e censure più che giustificate?
Personalmente credo che, fino a quando è in tempo, il presidente Casini debba rivedere la propria posizione e quella dell’intero consiglio di Lega. La sensibilità globale è cambiata e - come sta dimostrando il Mondiale - il calcio non vive più staccato dal mondo reale.
Se davvero l’Italia cambiasse sede per la finale di Supercoppa, forse riguadagnerebbe il credito perduto con la mancata qualificazione al Mondiale. Si può essere campioni, in questo caso di civiltà, anche se a fare gol non fossero i calciatori, ma, per una volta, i dirigenti.