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    Alibaba e il Milan da mille e una notte

    Alibaba e il Milan da mille e una notte

    • Marco Bernardini
    La nostalgia è una malattia dolce e incurabile, specialmente a una certa età. I pensieri che viaggiano all’incontrario e che si fermano nelle stazioni a più care alla nostra memoria.  Volete mettere la consolazione, seguita dal canonico lamento “Ai miei tempi sì che…”. Che poi, nella maggioranza dei casi, non è vero niente o è vero soltanto in parte perché quando vivevamo in diretta “quei tempi” erano esattamente come quelli attuali. Una sorta di montagne russe costellate di gioie e di dolori assortiti a seconda del momento più o meno favorevole. Sicchè, osservata con il microscopio del realismo,  occorre convenire che la nostalgia è un’ingannevole canaglia. 

    Allora, una volta per tutte, smettiamola di prenderci in giro invocando il calcio come quel giocattolo buono per tutte le età che è stato ma che, ora, non c’è più. Quello che era il luna park della domenica si è trasformato in un circo aperto e funzionante praticamente sette giorni su sette e per dodici mesi all’anno. Non più una fragile lanterna magica ma una macchina allestita per produrre spettacolo nella misura in cui deve fruttare denaro. E la definizione “azienda calcio” attribuita al mondo del pallone è perfetta. Ma l’imprenditoria, oggi più che mai, esclude a priori conduzioni dilettantesche o artigianali. Se vuole essere vincente deve, per forza, fare leva sulle colonne portanti della new economy: progettazione accurata, competenza specifica su tempi e metodi di produzione, affiatamento del team dirigenziale, organizzazione del lavoro, conoscenza del settore, liquidità affidabile e possibilità di capitali di investimento pressoché illimitati. Senza queste basi nessuna società di calcio è in grado di proporsi come una realtà vincente. Neppure sul campo.

    La grande novità calcistica del nostro secolo è rappresentata dall’abbattimento di quelle motivazioni che, in tempi andati, rappresentavano la benzina utile a far viaggiare la macchina: passione sportiva, desiderio di visibilità, orgoglio campanilistico, vocazione all’esercizio del potere, una buona dose di vanità, il desiderio di passare in qualche modo alla storia. Erano le armi dei presidenti, papà e poi anche quelle dei presidenti-padroni i quali, una volta rimasti con il portafoglio vuoto, erano costretti a cedere spesso e volentieri ai presidenti-ladroni o comunque privi di scrupoli. Le società di calcio erano, più o meno, l’espressione di una Famiglia di grandi e medi imprenditori nella quale a uno dei membri veniva concessa la libertà di divertirsi. Cognomi importanti. Agnelli, Rizzoli, Moratti, Pirelli, Falk, Sensi, Mantovani, Gaucci, Garrone, Pulvirenti, Ferlaino, Ambrosoli, D’Attoma, Arrica, Merloni, Riva, Ugolini, Tanzi, Ferlaino  tra i più celebri. I successi sportivi venivano mediamente coniugati con il potere e con il blasone del clan. E, fino a quando i “mercenati” della domenica non si stufavano o preferivano spendere i loro quattrini in altro modo, l’immagine della squadra era legata a doppio filo con quella della Famiglia.

    A sdoganare, in parte, questa regola fu Silvio Berlusconi. Lui, che inizialmente voleva comprare l’Inter, alla fine divenne padrone del Milan. Soltanto dopo, strada facendo, vendette anche l’anima e il cuore al “suo” Diavolo. Certamente al Cavaliere piacerebbe fare ciò che soltanto la Juventus continua a fare e continuerà fino a quando esisterà un Agnelli convinto che la squadra è un gioiello di famiglia irrinunciabile. Ma, osservando dietro di lui, Berlusconi capisce che non può. Dopo di lui il nulla, almeno per ciò che riguarda il Milan e un’eredità della quale ai discendenti del patriarca non può importare di meno. Dunque, non appena al vertice della società rossonera ci sarà il passaggio delle consegne (e non potrà essere altrimenti), il calcio italiano dovrà contare sulla sola Juventus come portabandiera di un sistema calcio certamente aziendale ma anche intimamente passionale. Il  resto non sarà, forse, noia ma puro business.

    Il molto onorevole Jack Ma, infatti, non a caso è il dodicesimo uomo più ricco del pianeta e il secondo della Cina. Lui che da ragazzo venne istruito in piena “rivoluzione culturale maoista” ha saputo leggere oltre le righe e interpretare il libretto rosso scritto dal “grande timoniere” andando oltre la semplice propaganda ideologica e mettendo in pratica la regola, tutt’altro che stravagante, che avrebbe portato la Cina ad essere il primo e unico Paese governato da un comunismo associato ad un capitalismo restaurato. Il molto onorevole Jack Ma, infatti, non a caso ha voluto battezzare il suo impero con il nome del protagonista di una novella del libro “Mille e una notte”:  Alibaba. Un pastore di pecore, povero ma astuto, che riesce a sconfiggere quaranta ladroni e a impossessarsi dei lori tesori che serviranno anche per il bene degli abitanti del villaggio in cui vive. Perché l’Italia e perché il Milan? Il molto onorevole Jack Ma è nato a Huangzong città della quale fu governatore Marco Polo del quale il tycoon cinese si dice grande ammiratore. Lui è pronto a fare il percorso inverso, a comprare il palazzo dell’ex Gran Khan Silvio e a rivoluzionare il calcio italiano dopo essersi sbarazzato dei quaranta “ladroni”. E, tutto sommato visto come stanno le cose oggi qui da noi nel villaggio della domenica, non è detto che il cinese venga per nuocere.

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