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  • Albertini a CM: 'Le divise al contrario, l'orecchino dopo Atene e il rapporto  con Cruyff: vi dico tutto. Su Tonali e il Milan...'

    Albertini a CM: 'Le divise al contrario, l'orecchino dopo Atene e il rapporto con Cruyff: vi dico tutto. Su Tonali e il Milan...'

    • Daniele Longo
     Staresti ore a parlare di pallone, avendone di storie da raccontare. Tra aneddoti del passato e idee per il futuro raccontati senza troppi giri di parole. Ha scritto le pagine più belle della storia del Milan, ha lasciato il segno anche nelle due esperienze in Spagna con le maglie di Atletico Madrid e Barcellona. Demetrio Albertini ha aperto il baule, prezioso, dei ricordi nella lunga diretta Instagram sul nostro profilo ufficiale. 

    Signor Albertini, per lei il Milan è stato una sorta di seconda casa.
    "Era il 1982 quando arrivai al Milan, avevo appena dieci anni. Ero giovanissimo, una volta c'era la categoria dei primi calci. Non esistevano le scuole calcio ai tempi, facevo la quinta elementare".

    C'era Farina come presidente, sono stati anni difficili. Ma è vero che, ai tempi delle giovanili, eravate spesso costretti a mettere la maglia al rovescio perché gli sponsor cambiavano da un momento all'altro?
    "Non spesso, capitava tutti gli anni. Io ricordo che avevamo Oscar Mondadori e Pooh, erano i due sponsor che si erano intervallati nel giro di un anno. Noi giovani mettevamo le magliette al contrario poi arrivò Berlusconi e cambio tutto. Pensi che, nella categoria Giovanissimi, andammo a fare un torneo con la divisa. Anzi, le dirò di più, con il doppiopetto. Me lo ricorderò sempre: siamo passati dalla t-shirt al doppiopetto di Berlusconi".

    Berlusconi che non era così convinto di cederla al Padova, nell'estate del 1990. E' vero che le consigliò, personalmente, di non andare via, seppur in prestito?
    "Lui mi prese in disparte, ancora prima di quell'estate,  e mi disse: 'Io voglio che cresca da noi, meglio fare 15 partite al Milan che rischiare fuori". Tanti giocatori erano andati via, anche bravi, e c'era il rischio di perdersi perché sei anche nel momento di maturazione a livello umano. Io gli risposi: 'Presidente, io ci metto la firma sulle 15 partite, ci mancherebbe. Sono al Milan'. Poi capitò questa occasione e decise la società, ai tempi era così. Non avevo nemmeno il procuratore, ero andato e tornato da Padova praticamente  da solo. L'ho preso intorno al 1992".

    Poi ha condiviso tutta la sua carriera con la Branchini Associati.
    "Esattamente, con Giovanni Branchini e Carlo Pallavicino. Bisognerebbe chiedere a Carlo una curiosità: lo conobbi fuori un ristorante a Padova, non so nemmeno se mi pagò la cena (ride ndr)".

    Berlusconi seppe riconoscere il talento perché lei tornò al Milan nel 1991 e con Capello fu un successo a tutto tondo. Posto da titolare preso ad Ancelotti e vittoria dello scudetto.
    "Si, e nello stesso anno faccio l'esordio in Nazionale, a dicembre. Diciamo che Berlusconi gioca sempre all'attacco e poi, qualche volta, ti dice di arrangiarti. Lo dico perché, al rientro da Padova, in una delle prime partite giocate da titolare dopo Cagliari, ad Ascoli, lui mi diede subito l'etichetta, che io odio tremendamente perché possono fare male a un ragazzo, di nuovo RIvera. Può capire che un po' di pressione l'ho avuta all'inizio".

    Paragone importante quello del nuovo Rivera, ma con il numero 4: E' stato il suo numero più utilizzato in carriera, perché?
    "Il numero 4 arrivò perché era l'unico libero. Lei è tanto giovane ma prima i numeri partivano dall'1 all'11 e in quella squadra potevi prendere solo quello libero (ride ndr). Il numero era davvero l'ultima cosa. Mi ricordo che il primo anno, con Capello in panchina, ho provato a giocare con qualsiasi numero: l'8, il 4, il 10 e il 7. Sicuramente il 4 è stato quello più costante. Molti mi ricordano che, nelle 4 competizioni importanti fatte con la Nazionale, ho giocato con l'11 e con il  9, oltre che con il canonico 4. Molti non sanno che i numeri delle Nazionali si seguiva un ordine alfabetico per reparto. Quindi ti poteva capitare qualsiasi numero, una volta mi capitò anche il 9. Il 10 poteva esser giusto, ma appena appena perché nel calcio moderno identifica il giocatore offensivo, io ero un regista e non il trequartista di talento. Io davo i tempi, facevo partire l'azione".

    Di numeri 10, o centrocampisti offensivi, al Milan ne ha avuti tantissimi come compagni di squadra. Parliamo di campioni come Gullit, Savicevic, Boban, Baggio, Rui Costa, solo per citarne alcuni. Senza scontentare nessuno, ci può fare una sua personale classifica dei più forti?
    "Posso dirlo? Questa è una domanda un po' bastarda perché alla fine se ne dici uno gli altri li scontenti. Solo per elencarli: Gullit, Donadoni, Savicevic, Boban, Rui Costa. Ne ho avuti abbastanza di 10 per poter scegliere. Poi dipende cosa intendi per 10 perché a volta era una seconda punta, una volta il fantasista e altre volte era semplicemente quello più talentuoso".

    Savicevic e Boban spesso hanno espresso il loro talento sulle corsie laterali.
    "Esattamente, non hanno quasi mai fatto il numero 10 vero e proprio loro due. Erano giocatori di grandissima qualità che si sono sempre adattati a sistemi di gioco diversi rispetto alle loro squadre precedenti all'arrivo in rossonero. Boban ha giocato molte volte sulla fascia, poi è venuto vicino a me. Poi ha giocato solo un piccolo sprazzo, nella seconda metà dell'anno dello scudetto del 1999, da mezzapunta. Savicevic partiva sempre largo a destra e poi entrava con la sua qualità. Nel 4-4-2 sembrava un esterno di grandissima qualità, dove faceva sempre l'uno contro uno. Ne ho visti davvero pochi con il suo coraggio e la sua spregiudicatezza nel fare l'uno contro uno".

    Dall'esterno Savicevic inventò quel gol fenomenale nella finale di Champions League vinta contro il Barcellona. Era il 1994 e lei l'ha spesso considerata come la migliore stagione della carriera, vero?
    "Tante volte ci si lega tantissimo alle vittorie, quell'anno lì, può immaginare, è un anno da incorniciare: vinco Champions League e campionato e arrivo secondo al Mondiale con la Nazionale. Non può essere escluso dai ricordi più belli anche se non è stata l'unica stagione che ricordo con più emozione".

    In quell'anno realizzò il gol, contro il Monaco,  in semifinale di Champions League. E' stato quello più importante della sua carriera?
    "Diciamo di sì, perché era arrivato in un momento molto delicato: eravamo in 10 contro 11 complice l'espulsione di Billy(Costacurta ndr). Moralmente eravamo anche a pezzi perché sapevamo che nemmeno Baresi ci sarebbe stato nell'eventuale finale. Eravamo una grandissima squadra, quello sì, ma giocavano una partita secca in casa. Poteva succedere di tutto e quel gol è stato bello, molto, ma anche significativo perché ci consegna la finale".

    Nella finale di Atene affrontaste il Barcellona di Cruyff. Formazione fortissima, piena di campioni, e convinta di poterla portare a casa anche facilmente, leggendo quelle che furono le dichiarazioni della viglia da parte dei catalani.
    "Può immaginare che, avendo finito la mia carriera al Barcellona, questo argomento l'ho affrontato tante volte. Tanti di loro sono rimasti miei amici, altri erano diventati anche miei dirigenti come Begiristain, quindi può immaginare. Il discorso è vero, la realtà fu proprio quella che ha descritto. Noi avemmo solo 15 giorni per preparare quella partita, loro 3 giorni prima stavano festeggiando la vittoria del campionato. Avevano una forma di presunzione che però quando ho conosciuto Cruyff, perché ho avuto la fortuna di passare diverse serate con lui, raccontava che quella spregiudicatezza era una forma per cercare di incutere pressione all'avversario. Sapeva chi incontrava e allora voleva mettere qualche difficoltà in più con le parole. Il problema è che noi siamo stati una squadra, che pur avendo due assenze pesanti come quelle di Baresi e Costacurta, in quei 3 anni aveva raggiunto 3 finali. Era una squadra formata da grandi giocatori e da grandi uomini".

    I suoi amici catalani l'hanno perdonata poi?
    "Penso e spero di si (ndr)".

    Cruyff ha segnato un'epoca nel mondo del calcio, guidando una sorta di rivoluzione con la sua Olanda. Fuori dal campo che personaggio ha avuto modo di conoscere?
    "Quando l'ho conosciuto, ahimè possiamo dirlo, era negli ultimi anni della sua vita. In un'occasione ebbi l'opportunità di giocarci anche insieme a calcio. Lui era molto carismatico, la forza risiedeva nella convinzione di poter trasferire un modo specifico di fare calcio. Le sue regole, i suoi concetti, il suo gioco fondato sul possesso palla: tutte nozioni importanti per i giovani. Erano i valori della collettività, lui è stato uno dei primi giocatori universali. Lo ha dimostrato anche come allenatore a livello di mentalità. E' sempre stato un punto di riferimento per il mondo del Barcellona. Il suo carisma, la sua sicurezza legata anche a una spontaneità quando eravamo davanti a una paella o a un bicchiere di buon vino".

    Ci furono grandi festeggiamenti, immagino, dopo un'impresa di quelle dimensioni: chi fu il più scatenato?
    "Non me la ricordo sinceramente. Sicuramente fu una grande festa, seguita a quello dello scudetto. Le racconto una cosa inedita: avevamo fatto una scommessa insieme ad altri 4 o 5 giocatori. In caso di vittoria, avremmo dovuto mettere l'orecchino. Io misi l'orecchino per otto giorni, non svelo gli altri nomi perché toccherebbe a loro. Sono nomi inimmaginabili, le assicuro questa cosa. Lo abbiamo tolto prima di andare in ritiro al Mondiale perché ci siamo detti che Arrigo Sacchi ce lo avrebbe fatto togliere subito".


    Lei ha vinto 5 scudetti e 2 Champions League.
    "Scusi se la interrompo, ma voglio correggere un pensiero comune: in squadra ne ho vinte 3, poi è normale che alcune finali le ho vissute da ragazzo. Ma dico sempre che di due Champions League vinte ho la foto nello spogliatoio con la coppa, e di una ho la foto in campo. Questa è la diversità, è normale che se devo pensare a una finale mi viene in mente quella del 1994".

    Zaccheroni nel 1999 affermò: 'Albertini è il mio giocatore ideale'. A fine stagione arrivò uno scudetto quasi inaspettato rispetto agli altri vinti nella sua carriera.
    "Lo ringrazierò sempre. Lui arrivò in un momento mio molto difficile perché il 1998  ebbi un'infiammazione all'adduttore della gamba destra. Pensi che per 3 mesi presi l'Aulin tutti i giorni per allenarmi perché volevo andare al Mondiale. Ahimè non arrivai nelle migliori condizioni, tanto è vero che qualche partita non la giocai giustamente. Quando sono rientrato  cercai di rimettermi a posto e iniziammo un percorso insieme con grande fiducia in un progetto di costruzione. Di un cambiamento anche radicale di modulo, con tre difensori. Ci trovammo nelle ultime 10 giornate a giocarci lo scudetto e ci dicemmo: 'Giochiamocelo!"La cosa bella è che c'era ancora la vecchia guardia, Zaccheroni gli aveva sempre dato grandi meriti. Fu inaspettato e lì si che ci furono dei festeggiamenti folli, secondi solo a quelli della vittoria nella Liga con il Barcellona. Boban, Weah e tutti gli altri erano scatenati".

    Nel 2002 si ruppe qualcosa con il Milan, il suo trasferimento all'Atletico Madrid fu segnato anche da qualche tensione.
    "Si, è vero che si era rotto qualcosa. Da una parte fu una scelta condivisa da tutti ma è anche vero che, negli anni precedenti, il Milan non prese mai in considerazione le tante offerte che erano arrivate per me. Lì inizio a prendere in considerazione queste situazioni. Io non sono mai voluto essere un peso per nessuno, nemmeno alla fine della mia carriera al Barcellona. Con grande dispiacere, perché avevo sempre detto che il mio sogno era quello di finire la mia carriera al Milan. Se non mi avessero mandato via, però,  non avrei provato tutte le esperienze professionali meravigliose che ho fatto poi. Bellissima sia quella con l'Atletico Madrid che con la Lazio, dove vinco un trofeo che mi mancava: la coppa Italia".

    Dei tanti compagni che ha avuto, con quali è rimasto amico nel tempo?
    "Devo dire la verità, il mio percorso post carriera è stato diverso dagli altri perché ho iniziato a fare il dirigente per la Federazione. E' una scelta coraggiosa e impegnativa, perdi di vista tutti gli amici perché viaggi tanto tra Roma e Milano. Io, pur non sentendo spesso tanti amici che ho avuto, ne posso dire come Costacurta e Paolo e sembra che stiamo giocando ancora. Perché, anche se non c'è la continuità di rapporto che avevamo prima, c'è un'amicizia amicizia incredibile. Posso passare anche tanti mesi senza sentirci ma rimane cosi, come con Ambrosini. Così succede anche all'estero, io ho un amico speciale come Puyol. Ci sentiamo abbastanza, così come con Di Biagio. Poi vanno tutti contestualizzati al momento, con Gigi Casiraghi ci frequentiamo spessissimo".

    Un amico lo è anche Filippo Inzaghi, ma c'è stato uno screzio tra di voi qualche giorno fa per alcune dichiarazioni sulla ripresa del campionato: avete avuto modo di chiarire poi?
    "Va tutto contestualizzato, non voglio entrare nella polemica. E' stata una cosa di getto, stiamo vivendo un momento molto particolare. Non voglio rientrare in quel discorso perché va contestualizzato in quel momento lì".

    Il più forte compagno di squadra?
    "Senza dubbio Marco Van Basten, talento unico. Ha vinto tre palloni d'oro chiudendo la sua carriera giovanissimo, a soli 28 anni. L'infortunio è stato un plus negativo. Ma ho giocato con tantissimi attaccanti fortissimi: Weah, Shevchenko, Vieri, Pippo Inzaghi, Signori, Baggio".

    Lei fu importante per gli inizi di Shechenko.
    "Personalmente gli sono stato molto vicino. Era difficilissimo poter comunicare con lui, perché non sapeva una parola in italiano e nemmeno in inglese. Comunicava a gesti, era molto complicato. Si vedeva che era un grandissimo campione, ma il discorso è riuscire a unire il talento alla prestazione. Io faccio sempre l'esempio dell'attore che va a recitare alla Scala: tu hai l'opportunità di gareggiare per il massimo, ma poi devi essere tu a sostenere quello che tutti pensano di te. Con il lavoro e tutto. Sheva lo ha fatto fin dal primo giorno, aveva il talento e si è saputo adattare al palcoscenico, non è da tutti".

    Le piace Tonali?
    "Siccome esce sempre il suo nome quando vengo intervistato, io vorrei che superasse quello che ho fatto io. Glielo auguro davvero tanto, ma veramente di cuore. E' vero che ha delle caratteristiche molto simili alle mie, però torno al discorso di prima sull'etichetta. E' un giocatore moderno, a me piace molto. Ma ci sono diversi giocatori italiani che a me piacciono tanto. Se mai dovessi dire qualcosa al Milan, gli consiglierei di costruire un gruppo di valore con degli italiani, poi puoi anche costruire il fenomeno straniero. Ma se non parti dal senso dell'italianità diventa difficile, io punterei molto su questo fattore".

    Anche in panchina?
    "Non sono un dirigente (ride ndr). Ci sono persone deputate a queste decisione. Siccome so quanto sia difficile scegliere un allenatore per via dei miei trascorsi in Nazionale quando con i presidenti abbiamo sempre cercato la soluzione migliore del momento".

    Adesso l'Italia ha trovato il meglio con Mancini?
    "Non l'ho scelto io ma secondo me è il meglio che ci possa essere. Si è calato nella parte così velocemente che quando l'ho visto gli ho fatto i complimenti per quello che è riuscito a trasferire alla squadra. Io sono uscito da qualche anno di Federazione e so che non è così facile".

    Il migliore allenatore della sua carriera?
    "Tante cose sono strane per gli allenatori, tutti mi hanno insegnato qualcosa. Sacchi mi ha insegnato a comportarmi in maniera diversa perché io sono entrato al Milan così tanto giovane. Lui mi ha trasformato da calciatore a giocatore di calcio. Il calciatore sa calciare bene la palla, il giocatore sa stare in mezzo al campo e fare il professionista. Capello ha avuto il coraggio di buttarmi nella mischia, di darmi la fiducia nel farmi giocare titolare. Non era facile, avevo solo vent'anni. Zaccheroni anche è stato molto importante, lo stesso Tabarez. Al Milan non ha avuto molta fortuna ma poi l'ho incontrato tante volte in giro per il mondo. Ho avuto la fortuna di avere sempre il meglio come allenatori".

    Cosa pensa della situazione attuale del calcio, diviso tra chi vuole ripartire e chi no?
    "Premesso che non io la persona che deve decidere, c'è il Consiglio Federale. Non voglio entrare nemmeno nel merito economico anche se è molto importante perché si sta stabilendo cosa si può perdere. Da spettatore posso dire che l'aspetto della salute è molto importante. Io ho partecipato, con il presidente del settore giovanile scolastico Tisci, alla decisione, cosa che è successa due giorni fa, di terminare i campionati giovanili. Dal momento in cui viene meno l'interesse economico oggi non ci sono le condizioni per ricominciare, magari tra due mesi la situazione sarà diversa. Io, ripeto, faccio delle osservazioni da esterno: più un protocollo è restrittivo, con tante normative, più vuol dire che c'è un rischio più grande. Vuole dire che, forse, si sta forzando la mano per una condizione che in questo momento c'è. Il calcio è uno sport di contatto, ma bisogna prendere una decisione considerando la salute. Tutti vorremmo ripartire ma va fatta una considerazione: oggi c'è un Protocollo troppo articolato, addirittura dicono che la serie B e la C potrebbero non rientrare e sono professionisti. E' normale che la Federazione voglia essere pronta all'eventualità di una ripresa, ma leggendo il Protocollo noto delle accortezze che non danno per scontate che non possa succedere nulla. Addirittura è uscita una dichiarazione della Commissione medico scientifica, con il Professor Ricciardi, dove viene messo in evidenza che il calcio è un'attività di contatto, Io non gioco, ma leggo tutte queste cose e più capisco che il rischio è sempre più alto. Forse ci saranno due step, già le riaperture degli allenamenti le vedo molto complicate. Vedo una situazione affrettata e con molti dubbi".

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