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Addio a Camilleri, il Grande Vecchio che odiava il calcio
Certamente sarebbe stato uno stupendo affabulatore anche per le grandi avventure sportive e dei suoi protagonisti, talvolta epici, se non avesse disprezzato il calcio ammettendo pubblicamente di non sopportare gli italiani perché sanno parlare soltanto di Sanremo e di pallone. Un “odio” tutto sommato mascherato. In realtà confessando che scriveva tutti i giorni proprio come fanno gli atleti con quel paragone mostrava di non essere completamente indifferente alle performances agonistiche. Intrigato dalle corse di Formula Uno, concedeva spazio al calcio soltanto quando giocava la nazionale italiana ovvero secondo lui l’unico e vero soggetto in grado di unire un Paese altrimenti disunito dalla barbarie del tifo campanilistico.
Ma il suo distacco dal mondo del pallone non era frutto di un atteggiamento snobistico. Arrivava da molto lontano. Dai giorni in cui lui era bambino e suo padre era diventato presidente dell’Empedoclina, una squadretta di bassa categoria. Il ragazzino Camilleri, già infastidito dal fatto di dover essere piccolo atleta “per forza” perché così voleva il partito fascista, tutte le domeniche viveva con terrore la sua giornata di festa. Lui e sua madre aspettavano con ansia e preoccupazione che, a sera, il capofamiglia tornasse a casa dopo la partita. Cosa che spesso non accadeva. Dovevano andarlo a recuperare nella caserma dei carabinieri o persino al pronto soccorso dell’ospedale. Uno volta su due le partite dell’Empedoclina finivano a botte sia tra i giocatori e sia tra i tifosi. Un trauma mai assorbito dal Grande Vecchio e quindi anche dallo stesso commissario Montalbano che a un gol di Ronaldo ha sempre preferito un piatto di pasta “ncasciata”.