A scuola di calcio dal professor Mandorlini
Sempre lui, il più amato di tutti. Pronto a regalare ancora momenti preziosi. Questa volta però Andrea Mandorlini non è sul campo a guidare i suoi ragazzi ma sul palco della Gran Guardia, ospite del secondo corso di formazione organizzato dal settore giovanile del Verona. Di fianco Stefano Ghisleni, responsabile del vivaio dell'Hellas e Giancarlo Filippini, capo degli osservatori gialloblu. Ci sono anche l'assessore allo sport Federico Sboarina, Paolo Paternoster, presidente di Agsm che ha sponsorizzato l'evento, ed ovviamente sedute in platea tante persone venute per ascoltare l'allenatore del Verona. Parte piano il mister. Gli chiedono del 4-3-3, è il tema della serata. Ma è solo un pretesto per aprire il cassetto dei ricordi. «Sinceramente ero un po' stufo del 4-4-2, la mia idea è sempre stata quella di avere tre attaccanti davanti pur con molte variazioni – attacca Mandorlini – stretti, larghi, con un trequartista, non importa, per me conta avere la possibilità di diversi riferimenti in avanti. Anche se sono stato un difensore amo il gioco offensivo, senza rinunciare all'equilibrio ma tenendo in mano la partita». Parla a braccio, poi gli chiedono concetti più specifici e il mister riempie mille cartelloni: nessuna lavagna luminosa, nessun computer, solo fogli, pennarelli e disegno a mano libera. «Il computer non lo uso mai, faccio tutto sulla carta, su mille foglietti sparsi qua e là. A volte mi sveglio la notte perché mi viene qualche nuova idea e la scrivo subito – racconta - non dovete mai perdere la voglia di trovare qualcosa di diverso, di inventarvi gli allenamenti e di proporre nuove idee». Consigli, metodi, il tempo corre veloce, l'Hellas però è sempre al centro delle domande del pubblico. «In una squadra sono fondamentali le conoscenze, ma devono averle tutti i giocatori: è indispensabile per creare un gruppo forte, ci sono allenatori che scelgono modi più pittoreschi. A me piace il lavoro sul campo». Uno spettatore più intraprendente degli altri prende la parole e incalza il tecnico con mille domande, Mandorlini risponde volentieri, poi parte a briglia sciolta. «Oh, ma questo chi l'ha mandato, quelli del Gubbio?» applausi e risate, il mister sorride e va avanti a spiegare. Parla soprattutto di attacco, di movimenti avanzati, spiega nei dettagli cosa chiede ai suoi giocatori; accenna anche alle altre formazioni, porta l'esempio del Pescara di Zeman, maestro del gioco offensivo. «Ma pensa te, questa sera, prima quello del Gubbio, adesso mi tocca anche parlare del Pescara» è una battuta dietro l'altra, con il microfono in mano potrebbe andare avanti per ore. «In Italia giochiamo male, nei settori giovanili si fa troppa tattica quando si dovrebbe puntare molto di più sulla tecnica. Bisogna tornare ad essere più allenatori e meno gestori. Oggi quello che fa sentire giocatori è quanto si guadagna, è assurdo – il bersaglio è un sistema che gli piace sempre di meno – una volta ti sentivi giocatore o allenatore per quello che facevi sul campo e basta». Domanda dalla platea, il tema è il fallo tattico. «Non so se sono giusto per rispondere, direi che ero abbastanza falloso. Anche se non erano falli tattici i miei, andavo sull'uomo, è che proprio non capivo le finte» altre risate, Mandorlini si rivela anchorman efficace. La domanda sulla sua esperienza all'estero arriva quasi alla fine. «Mi ha fatto tornare più forte, dopo aver vinto campionato, coppa e supercoppa essere esonerato a pochi giorni dalla Champions League è stato un colpo durissimo, evidentemente però a tutto c'è un perché... poi sono arrivato a Verona e forse è così che doveva andare. Qui all'inizio il problema era mio, non certo della squadra, era il mio spirito. Continuavo ad essere troppo arrabbiato e non riuscivo a trasmettere quello che avevo in testa. Per chiudere non so bene cosa dire, se non che quello che conta è la passione. Riuscire a trasmettere conoscenze, valori, ma farlo sempre con una passione incredibile, infinita. Quella che ancora oggi a volte non mi fa dormire la notte».