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28 anni dalla morte di Di Bartolomei, Capitano modello rifiutato dal calcio
Aveva solo 39 anni. Era un uomo che conviveva con un tormento. Si sentiva rifiutato dal mondo del calcio, aveva cercato di reinserirsi, ma aveva trovato solo porte chiuse, ipocrisie, cortesie di facciata, promesse non mantenute, amici che non si erano rivelati tali, rifiuti anziché mani tese. Era un ex che si sentiva un reduce. Molti vollero leggere nella data dell’estremo gesto - il 30 maggio - un cerchio che si chiudeva, la fine di una storia, forse il senso di qualcosa. Ma chissà se davvero i giorni che scegliamo significano qualcosa. In ogni caso: il 30 maggio 1994 erano passati dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni, che la Roma - la Roma di cui Di Bartolomei era capitano - aveva giocato e perso contro il Liverpool, davanti ai propri tifosi, in un Olimpico strapieno, sì, una notte di lacrime e preghiere.
La sua carriera è un lungo filo giallorosso, cominciato nel 1972 e chiuso nel 1984, con una sola interruzione, un prestito al Lanerossi Vicenza, in Serie B per farsi le ossa, come si usava allora. Poi tre anni al Milan, chiamato dal suo maestro, Nils Liedholm; uno a Cesena e due a Salerno, in attesa di cominciare una carriera - quella di allenatore - che Di Bartolomei non iniziò mai. Il punto più alto è stato sicuramente lo scudetto del 1983 - con una squadra che contemplava Pruzzo e Nela, Conti e Falcao, Tancredi e Vierchowod - ma di Ago - centrocampista di fosforo dotato di un tiro formidabile (la sua specialità erano i calci di punizione) - piace ricordare la personalità, il carisma, quell’aura che circonda i giusti. Capitani si nasce, poi lo si diventa. E del capitano Di Bartolomei era l’emblema più virtuoso.
Perché Ago era diverso dai colleghi, non era omologato, si distingueva per una cifra esistenziale che raccontava - in ogni suo gesto - di serietà e di coscienza, di responsabilità e di passione sincera. Era un modello, era un esempio. Per i compagni, ma anche per gli avversari. Aveva un carattere introverso che certamente non lo aiutava. Era un timido che lì dentro, nel circo palla, sembrava sempre fuori posto. I silenzi che da calciatore ne hanno segnato la carriera ora, nel dopo calcio, sembravano svuotarsi di significato. Il giorno dopo la morte il suo ex allenatore, Nils Liedholm, in una lettera aperta racconta tutta la sua angoscia: «Perché ti sei ucciso, Agostino? Non me lo spiegherò mai. Non parlatemi della forza della disperazione, dell'attimo di follia. Non ci credo». Il cantautore romanista Antonello Venditti anni dopo gli dedicherà una canzone, «Tradimento e perdono». C'è una strofa che fa così: «Ricordati di me mio capitano/cancella la pistola dalla mano/Se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui». Da quel 1994 sono passati tanti anni. Le ragioni di un gesto così definitivo non è nemmeno giusto cercarle. Non è leale nei confronti di Diba. Restano le ragioni del cuore, resta il ricordo che ha sempre ragione.