1968, calcio e pugni chiusi, puntata 2: Zigoni, ma lo chiamavano Pelé
“Ragazzo, prendi la mia borsa e portala al pullman”. Non era una preghiera, ma un ordine. Omar Sivori poteva permettersi certi lussi. Specialmente con un sedicenne che gli faceva da riserva e che aveva il coraggio di volerlo imitare giocando con i calzettoni abbassati portati alla cacaiola e zizzagando tra gli avversari come uno slalomista. “No, guarda, la borsa te la porti da solo e anzi, già che ci sei, prendi anche la mia”. Omar non voleva credere a ciò che le sue orecchie avevano ascoltato. Più che incazzato era sorpreso. “Tiene pelotas, il nino”. Già, un gran paio di attributi.
Questo bel soggettino era Gianfranco Zigoni, da Oderzo nel Veronese. Uno fra i più fantasiosi e geniali fuoriclasse del pallone di fine Anni Sessanta al punto da aver incantato, giocando in amichevole con la maglia della Juventus contro il Real Madrid, un campione assoluto assoluto come Santamaria il quale disse pubblicamente: “Quello lì è più forte di Pelè”. E lui, Zigo-Zago come lo chiamavano i tifosi, ci credette. Fino al giorno in cui, con la maglia della Roma, gli capitò davvero di giocare contro il Santos della Perla Nera. Ammise con sincerità: “Guardando Pelè per come si muoveva e per le cose che faceva con il pallone tra i piedi mi venne una depressione profonda e pensai addirittura di abbandonare il calcio”.Non lo fece. Per fortuna di un calcio che senza di lui sarebbe stato decisamente più povero.
Zigoni era poesia e fantasia al potere. Proprio come diceva la parola d’ordine dei Sessantottini per i quali, sul piano esistenziale, lui rappresentava un simbolo. Un inconsapevole rivoluzionario che “faceva politica” contro il sistema senza rendersene conto. Capelli lunghi, barba incolta refrattario a ogni tipo di regole, irriguardoso con arbitri e guardalinee (“Quella bandierina puoi ficcartela nel culo”) erano più le multe e le giornate di squalifica rimediare che non i gol segnati. Si allenava quando ne aveva voglia, cioè pochissimo, e prima all’ora di pranzo mangiava polenta e coniglio, la notte in ritiro passava il tempo a sparare ai lampioni con una Colt. In compenso passava da un letto all’altro in compagnia di bellissime fanciulle. Specialmente a Verona, la sua vera casa calcistica, facendo ammattire il presidente Garonzi il quale di lui diceva: “Zigo è un grandissimo sciupafemmine e figlio di buona donna, ma senza di lui il calcio non avrebbe valore e neppure colore”.
Così la pensavano e penseranno sempre i tifosi dell’Hellas che per lui impazzivano anche quando non giocava. Come accadde una domenica al Bentegodi. Zigoni in settimana aveva fatto flanella e Valcareggi lo aveva destinato alla panchina. A partita iniziata dal sottopasso spunta la figura di un ragazzo con addosso una pelliccia da lupo e in testa un cappello da cow boy. E’ lui, Gianfranco Zigoni che così conciato si avvia lentamente verso la panca e il cui nome viene invocato per cinque minuti da tutto il pubblico che non badava più alla gara.
L’ho incontrato di recente a Verona, davanti a una bottiglia di ottimo Amarone. Ora ha un figlio che gioca a pallone, allena i ragazzini, ha scritto un libro con Ezio Vendrame, è in pace con se stesso e finalmente ammette di essere stato a modo suo un rivoluzionario come Meroni, Mondonico e Sollier. Dice: “Avevo il mito di Pelè, Oggi non più. Ora in camera tengo i poster di Che Guevara e di Padre Pio”. Inimitabile e fantastico Zigoni.