11 luglio 1982: come perdersi la festa più bella, quella di tutti gli italiani campioni del mondo
Io non c’ero. No, non c’ero allo stadio Bernabeu di Madrid quella notte dei miracoli. Con la mente, magari, e certamente con il cuore, ma non fisicamente. La mattina del 10 luglio, mentre la carovana azzurra si trasferiva da Barcellona a Madrid, io solo come un cane e con le lacrime agli occhi partivo dall’aeroporto Barracas della città catalana destinazione Pisa. Da lì avrei raggiunto Viareggio dove la mia famiglia era in vacanza. Un destino infame aveva tenuto in serbo per me l’ultimo degli scherzi che potevo aspettarmi.
Tutto ha inizio la sera di Italia-Polonia. In tribuna stampa, davanti alla mia Olivetti, non mi sento benissimo. Mi gira testa e provo un poco di nausea. Ciò non mi impedisce di lavorare e di raccontare Pablito e la sua favola che continua. Attribuisco quello stato di malessere all’aria condizionata sparata a palla ovunque nei posti al chiuso. Un inizio di banale raffreddamento. Con un buon sonno e un paio di tachipirine passerà. Tant’è, a fine gara e dopo aver inviato il servizio a Tuttosport non seguo i colleghi che vanno a cena. Rientro in hotel, mi caccio a letto.
La nausea è aumentata e ho anche brividi di freddo malgrado fuori ci siano trentadue gradi. Alle tre del mattino mi sveglio di soprassalto. Tremo come una foglia e ho dolori lancinanti al ventre e al fianco destro. Vedo i santi appesi al lampadario. Al telefono sveglio Darwin Pastorin, mio collega e fratello, che dorme nella camera attigua alla mia. Lui, a sua volta, avverte Pier Cesare Baretti, il nostro direttore. Tutti e due si precipitano in camera mia dove trovano una specie di uomo-straccio che si rotola nel letto. Viene chiamato d’urgenza un medico. La visita è accurata, la diagnosi precisa, grave colica renale acuta per cui sarebbe opportuno il ricovero in ospedale. Sto da cane ma sono lucido. Niente ospedale. Se devo lasciarci le penne preferisco accada a casa mia.
Una flebo e due intramuscolo tanto per non diventare matti dal dolore. Il giorno dopo non mi reggo in piedi anche se il febbrone è passato. Baretti si rende conto che non potei lavorare. Il giorno dopo sarei tornato a casa. Io, seppure con la morte nel cuore, manco protesto e alzo bandiera bianca. Ero arrivato fin lì dopo tre mesi folli farciti di ogni tipo di accadimenti e di emozioni e di sofferenze. Da Alassio a Vigo e poi a Barcellona. Madrid rimaneva un sogno. La partita più bella bel mondo, un evento miracolistico che mi avrebbe raccontato Darwin, al telefono, dopo aver abbracciato Claudio Gentile all’ingresso dello spogliatoio. Entrambi campioni dl mondo. Come tutti gli italiani, quella notte. La notte in cui dovetti accontentarmi di vedere Paolo Maldini, allora quattordicenne, tuffarsi per festeggiare nella fontana di piazza Mazzini a Viareggio dopo aver parlato con papà Cesare al telefono da Madrid.
Tutto ha inizio la sera di Italia-Polonia. In tribuna stampa, davanti alla mia Olivetti, non mi sento benissimo. Mi gira testa e provo un poco di nausea. Ciò non mi impedisce di lavorare e di raccontare Pablito e la sua favola che continua. Attribuisco quello stato di malessere all’aria condizionata sparata a palla ovunque nei posti al chiuso. Un inizio di banale raffreddamento. Con un buon sonno e un paio di tachipirine passerà. Tant’è, a fine gara e dopo aver inviato il servizio a Tuttosport non seguo i colleghi che vanno a cena. Rientro in hotel, mi caccio a letto.
La nausea è aumentata e ho anche brividi di freddo malgrado fuori ci siano trentadue gradi. Alle tre del mattino mi sveglio di soprassalto. Tremo come una foglia e ho dolori lancinanti al ventre e al fianco destro. Vedo i santi appesi al lampadario. Al telefono sveglio Darwin Pastorin, mio collega e fratello, che dorme nella camera attigua alla mia. Lui, a sua volta, avverte Pier Cesare Baretti, il nostro direttore. Tutti e due si precipitano in camera mia dove trovano una specie di uomo-straccio che si rotola nel letto. Viene chiamato d’urgenza un medico. La visita è accurata, la diagnosi precisa, grave colica renale acuta per cui sarebbe opportuno il ricovero in ospedale. Sto da cane ma sono lucido. Niente ospedale. Se devo lasciarci le penne preferisco accada a casa mia.
Una flebo e due intramuscolo tanto per non diventare matti dal dolore. Il giorno dopo non mi reggo in piedi anche se il febbrone è passato. Baretti si rende conto che non potei lavorare. Il giorno dopo sarei tornato a casa. Io, seppure con la morte nel cuore, manco protesto e alzo bandiera bianca. Ero arrivato fin lì dopo tre mesi folli farciti di ogni tipo di accadimenti e di emozioni e di sofferenze. Da Alassio a Vigo e poi a Barcellona. Madrid rimaneva un sogno. La partita più bella bel mondo, un evento miracolistico che mi avrebbe raccontato Darwin, al telefono, dopo aver abbracciato Claudio Gentile all’ingresso dello spogliatoio. Entrambi campioni dl mondo. Come tutti gli italiani, quella notte. La notte in cui dovetti accontentarmi di vedere Paolo Maldini, allora quattordicenne, tuffarsi per festeggiare nella fontana di piazza Mazzini a Viareggio dopo aver parlato con papà Cesare al telefono da Madrid.