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    Un uomo mite: sei stato felice, Cesare

    Un uomo mite: sei stato felice, Cesare

    • Marco Bernardini
    Mi è tremendamente difficile scrivere. Anche pensare mi è complicato. Mi perdo tra le immagini di un film lunghissimo che fanno male perché, dalla cinque del mattino, appartengono soltanto al passato. La vita porta a incroci inattesi. Quando Sergio, il fratello di mio papà, sposò la Bruna, una delle sue sorelle era già fidanzata con un bel ragazzo triestino che giocava nel Milan. Lui si chiamava Cesare Maldini. Lei Marisa Mazzucchelli ed era pure interista. Divennero marito e moglie.  Lei cambiò suadra.  Fu così che, seppure di sguincio, divenni pronipote dell’uomo che fu una bandiera per il nostro calcio. Ecco perché in questo momento, appena messo al corrente della sua partenza, oltre al dolore personale non posso evitare di provare la fatica “fisica” di scavare in una storia che, bene o male, rappresenta anche la mia storia. Non è facile, vi assicuro, perché a “zio Cesare” ho voluto bene sul serio essendone ricambiato nella giusta misura.

    Del campione sportivo avrete sicuramente modo di leggere in ogni angolo mediatico e di ascoltare attraverso le voci delle televisioni planetarie. Persino quella araba di Al Jazeera per la quale lui ha lavorato come commentatore. Io voglio invece dire semplicemente dell’uomo che ci ha lasciati nel giro di appena sei mesi ovvero il tempo tecnico e quasi matematico che impiega un cancro al pancreas per compiere la sua distruzione. Una persona perbene. Un galantuomo. Un essere mite. L’antipersonaggio di un mondo che lo rese felice fino a quando non furono i Personaggi Fasulli o Esagerati a prenderne possesso. Se ne accorse lui per primo, un giorno, quando entrando nella sede del Milan che era casa sua venne avvisato dalla segretaria di Galliani che per “motivi strategici” il suo ufficio di sempre non sarebbe più stato quello solito. Relegato in una stanza al fondo del corridoio Cesare ci mise un amen a capire che la “famiglia rossonera” nella quale era vissuto e per la qualche aveva dato l‘anima oltre ad un figlio campione come Paolo stava tagliando i rami secchi. Ma lui non si sentiva un ramo secco. Seppur avvilito, salutò con la solita educazione e non fece mai più ritorno in casa Milan.

    E dire che, per rispettare il suo fisico e mantenere lucida la sua mente, aveva persino smesso di fumare. Un sacrificio non da poco. Una notte, di ritorno da una delle tante trasferte, nello studio della sua casa milanese strizzò il pacchetto di Marlboro quasi con rabbia, aprì la finestra e lo lanciò nel vuoto. Da quel momento non toccò mai più una sola sigaretta. Le lo raccontava con orgoglio, mentre io gli fumavo addosso. Come in Messico, in un buco di paese chiamato Puebla dove la nazionale della coppia Bearzot-Maldini era arrivata per tentare di bissare, quattro anni dopo, i fantastici giorni del Mondiale spagnolo. Fu un disastro quella spedizione. Io caddi anche malato e Cesare, ogni sera, si faceva trenta chilometri per venirmi a darmi un poco di conforto e compagnia nella camera dell’hotel dove trascorrevo blindato giorni che finivano mai. Mi tranquillizzava dicendo che sarebbe durata poco quella tortura e che avremmo fatto ritorno a casa molto presto. Vedeva lontano, Cesare. 

    Era abituato a osservare verso l’orizzonte. Lo faceva da ragazzino affacciato dal balcone della sua abitazione del quartiere Servola, a Trieste. Da lì, che si vede il mare, salutava il babbo con il fazzoletto bianco ricevendone risposta da ponte della nave dove il genitore era imbarcato per la consueta missione militare. Poi quel dialogo a distanza venne interrotto, troppo presto. Sfogava la sua rabbia di orfano sul pallone e intanto continuava i suoi studi per diventare odontotecnico, per mantenere la promessa fatta al babbo.

    Uno di parola, Cesare. “Vuoi fare il giornalista? Potrei darti una mano e parlare con quelli della Gazzetta”. Gli risposi che preferivo cavarmela da solo. Soltanto dopo tanto tempo venni a sapere che dietro la mia prima assunzione come praticante c’era stata anche una sua indicazione. Ma non chiamatela raccomandazione, per carità. Neppure per suo figlio Paolo fece pesare la sua figura di campione che per il Milan era stato il primo italiano ad alzare una Coppa Intercontinentale. Osservava da lontano e di nascosto gli allenamenti e le partite del figlio e mai una sola volta si presentò dall’allenatore di turno per chiedere come andava. L’unica cosa che pretendeva da Paolo è che studiasse. Altrimenti niente pallone. Del resto era il primo figlio maschio, dopo tre bellissime bambine. Quello che lui e Marisa desideravano più di ogni altra cosa al mondo. Arrivò una mattina del 1968 mentre Cesare si stava allenando sul campo del Filadelfia. Nereo Rocco, il suo secondo papà, lo aveva voluto al Toro. La scena è questa. Arriva il magazziniere e dice una cosa al Paròn che subito punta Maldini e gli urla: “Te toca partir per casa, mona, che sei di nuovo papà”.  E Cesare, correndo e un poco preoccupato: “Xe una mula?”. Rocco ride: ”Mavalà xe un puteo, come ti te volevi”. Il “puteo” era Paolo. Poi ne arriveranno altri due, di maschi. E la tribù Maldini diventerà leggendaria.

    La famiglia perfetta. Fuori da ogni retorica di maniera. Una famiglia del Novecento, protetta da un patriarca del Novecento e amministrata da una donna del Novecento. Cementata da valori purtroppo oggi dismessi o dimenticati per la serie “uno per tutti e tutti per uno”. Una filosofia, quella del gruppo che è forte solamente rimanendo tale, che Cesare sapeva trasmettere anche ai suoi ragazzi dalla panchina. Sia come vice di Enzo Bearzot e sia come quando doveva cavarsela da solo con al suo fianco Marco Tardelli, in Francia, o Dossena, con il Paraguay. Fu quella della nazionale sudamericana l’ultima giostra sportiva di Maldini cittì. Una sfida e non un modo per far soldi, come diceva lui, che avrebbe potuto costargli la vita. Perché se quella sua nazionale avesse superato il turno come avrebbe meritato probabilmente Cesare, come certi grandi attori inglesi, sarebbe morto sulla scena. “Sai Marco, per fortuna trovammo un arbitro incapace o disonesto, non so. Sta di fatto che dopo l’eliminazione io partii il giorno dopo per l’Italia. Non mi sentivo bene. A Milano svenni. Ho rischiato l’ictus. Un’ennesima emozione in panchina, se fossimo andati avanti, mi sarebbe stata fatale”. Così mi raccontava bevendo un succo di frutta al tavolino del bar del “Principe” di Viareggio dove lui non mancava una sola vacanza di mare e di bicicletta perché le famiglie normali non hanno bisogno di andare alle Maldive per essere felici. E Cesare, per ottantaquattro anni, è stato felice. Una tenera carezza.

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