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Pelé, il mito sciolto come neve al sole
Vorrei non pensare male, ma proprio non riesco a fare diversamente. Questa volta devo concordare con quella vecchia volpe che fu Andreotti il quale suggeriva che a diffidare dell’altrui buona fede spesso ci si azzecca. Già poco convinto alla vigilia sulla validità dei 'motivi di salute' presentati da Pelè per giustificare la sua grande assenza al Maracanà, osservando le immagini in arrivo da Rio della bella e per nulla ingessata festa inaugurale mi sono ritrovato nella tribuna stampa dello stadio di Atlanta, negli Usa e nella terra di Rossella O‘Hara in 'Via col vento', grondante di umidità e con le lacrime agli occhi per la commozione. L’attimo in cui un uomo, lui sì veramente grande, veniva sorretto e aiutato per tenere in mano la fiaccola olimpica con la quale avrebbe acceso il braciere dei Giochi americani. Era Mohammed Alì, 'the greatest', devastato la Parkinson e tremante come una foglia al vento. La sua ultima performance intenerì il mondo.
A Pelè nessuno avrebbe chiesto di correre verso il braciere come un atleta dei cento metri. Rispettosi della sua età e dei suoi reali problemi all’anca operata due volte, gli avrebbero concesso di aspettare il 'penultimo' tedoforo accanto al braciere. Poi avrebbe lui dato il sacro fuoco agli dèi dell’Olimpo. Ebbene no. Manco quello. E certamente non per limitazioni fisiche. Purtroppo, alla base del rifiuto, ci stanno le ragioni che per tutta la sua vita di indiscusso campione hanno condizionato e un poco svilito la figura di Pelè. Motivi di sponsor, cioè di denaro. El senor Do Nascimento, ancora oggi, è il testimonial planetario di tre colossi delle multinazionali i quali loro malgrado non compaiono nell’elenco di coloro che hanno sostenuto finanziariamente i Giochi di Rio. La reclame, anche questa volta, si è rivelata più potente delle pulsioni emotive suggerite dal cuore. Del resto il 'Pelè uomo' è sempre stato molto attento al dato economico e al profitto personale. Fin dal giorno in cui, smessi i panni di idolo brasilero (per la famosa tourneè in Italia con il Santos quando per scendere in campo mezzo rotto contro il Milan di Trapattoni pretese e ottenne 50 mila dollari in nero) andò a giocare per i Cosmos negli Stati Uniti dove il calcio era ancora uno sport a uso di ispanici e italoamericani. Lui che, punta di diamante per una squadra leggendaria giallo-oro, una volta lasciata la nazionale si dimenticò di tutti i suoi compagni. Di Garrincha, soprattutto, che non andò mai a trovare in ospedale mentre stava morendo di cirrosi e povero al limite della miseria. Del resto, non a caso, Pelè veniva indicato come il 'nero più bianco del mondo', proprio come Joe Frazer che poi però fece outing.
E’ per questo che l’altra notte, mentre sfilavano zuppi di reale e contagiosa allegria gi atleti dietro i loro portabandiera (bellissima Federica e favolosa la squadra dei 'rifugiati') in sottofondo al 'samba' per una festa che finalmente non era una solenne messa cantata, mi è tornata in mente una canzone di Francesco De Gregori. Quella, conosciuta da tutti, di Nino che non deve aver paura di battere un calcio di rigore perché non è da queste cose che si giudica un giocatore. Così come non si può giudicare un campione per i gol fatti o perché sa volare più in alto di tutti. Il responso finale arriva dopo. Nella vita di tutti i giorni. Anche per Pelè.