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Italia, impara da Belgio e Germania: ecco la ricetta per ricostruire il nostro calcio dopo l'ultimo disastro Mondiale
“Puntare sui giovani”, uno slogan facile: ma come si traduce in realtà? I modelli da seguire già esistono e si chiamano Belgio e Germania. Ecco come hanno trasformato delle nazionali anziane e prive di talento in squadre spumeggianti e giovanissime. Una cosa è certa: i giocatori stranieri c'entrano poco o nulla con i mali del calcio italiano. Questo articolo è stato pubblicato in inglese su Serieaddicted.com (www.serieaddicted.com), un sito dedicato al calcio italiano che pubblica quotidianamente analisi e inchieste
La nazionale italiana è in crisi perché in Serie A giocano troppi stranieri. Ne siamo proprio sicuri? In realtà, i problemi della nazionale azzurra – e di tutto il movimento calcistico nazionale – nascono da lontano e si possono riassumere in due parole, due doti di cui dirigenti e allenatori del nostro Paese sono privi: coraggio e visione di sistema. Il fallimento di Sudafrica 2010 aveva fatto suonare un campanello d'allarme, che il bel campionato europeo di due anni dopo ha subito sopito. Ha detto bene Prandelli nella conferenza stampa nella quale ha annunciato le dimissioni, subito dopo la sconfitta con l'Uruguay: “Questa Nazionale ha mascherato i problemi del calcio italiano”. Infatti, in Brasile, la polvere che nel torneo in Polonia e Ucraina era finita sotto al tappeto è tornata in bella vista, davanti agli occhi del mondo.
Europei e Mondiali sono l'occasione per mettersi a confronto con il meglio che ci sia in circolazione a livello di movimenti calcistici nazionali. Se questi tornei vanno male, molto male, è importante cogliere il messaggio e agire in tempo per invertire la rotta. Anche Belgio e Germania hanno avuto le loro Waterloo. Ma hanno capito, hanno cambiato. In meglio o in peggio? La risposta è nei risultati raccolti nel mondiale brasiliano. Il Belgio si è presentato a Brasile 2014 con una rosa giovanissima (appena 26 anni e 15 giorni) e ha raggiunto un onorevole quarto di finale dopo aver mostrato sprazzi di bel calcio e, soprattutto, talenti che oggi fanno gola ai più grandi club europei. La Germania era appena più “anziana” (26 anni e 114 giorni di media) e, come sanno anche i sassi, ha vinto il suo quarto titolo mondiale con un gol di Götze (22 anni) su assist di Schürrle (23 anni). Thomas Müller è considerato un veterano e nel precedente Mondiale era anche stato capocannoniere. Ma ha appena 24 anni e ha già inanellato 56 presenze in nazionale maggiore. Alla stessa età, Matteo Darmian e Ciro Immobile ne sommano 8.
Entrambe queste nazionali sono risorte dopo aver toccato il loro punto più basso: il Belgio iniziò a svoltare nel 1998, quando tornò a casa nella fase a gironi del mondiale francese. La rivoluzione (che più avanti spiegheremo nel dettaglio) non è stata indolore e non ha dato risultati immediati: i Diavoli Rossi non si sono qualificati né per Germania 2006 né per Sudafrica 2010, tantomeno per gli ultimi tre campionati europei. La Germania toccò il fondo nel 2000, quando una squadra imbarazzante uscì al primo turno con un gol segnato e cinque al passivo. Quella Germania dovette richiamare addirittura Lothar Matthäus, trentanovenne, per puntellare una rosa carente e anziana. Sarebbe riduttivo definire “riforma” quella attuata da Belgio e Germania. Si è trattato di un lungo e difficile processo di integrazione tra federazione e club, tra dirigenti e allenatori, tra allenatori federali e allenatori di club.
Stranieri, un falso problema. Meno stranieri, più italiani. Ecco la formula magica per far resuscitare la nazionale azzurra. Uno slogan protezionistico, un po' vintage. Uno slogan vuoto, smentito dai fatti e dai numeri. Riprendiamo il filo conduttore della nostra inchiesta: il paragone con il calcio tedesco e belga. Prendendo in considerazione la prima divisione dei rispettivi Paesi, nella stagione 2013-2014 la Serie A è quella con la minor percentuale di giocatori stranieri con il 44,8%, segue la Bundesliga con il 46% e al primo posto c'è la Jupiler League belga con il 48,3% (dati Transfermarkt). I dati prendono in considerazione i tesserati, indipendentemente dal fatto che siano stati impiegati o no.
Dopo il fallimento di Sudafrica 2010, quando la Nazionale del Lippi-bis tornò a casa al primo turno, la Figc diede un'ulteriore giro di vite all'acquisto di calciatori extracomunitari. Da allora la situazione è rimasta immutata: le squadre di A non possono averne più di tre in rosa. Chi ha già raggiunto il limite massimo, prima di acquistarne due (dall'estero, perché dal campionato italiano se ne possono acquistare quanti se ne vuole) deve prima cederne altrettanti. In Bundesliga e Jupiler League continuano a sbocciare giovani talenti fatti in casa e, pensate, in questi due campionati non è stato posto alcun limite ai calciatori extracomunitari.
La Federazione italiana non è nuova a queste scelte, basate più sull'emotività del momento che non su una analisi razionale del sistema. Nel 1966 l'Italia fu eliminata dal Mondiale in Inghilterra al primo turno. Anche allora era la seconda volta consecutiva. Come conseguenza, la Figc chiuse le porte a qualsiasi calciatore straniero in Serie A. Volete sapere quanti erano i non italiani alla fine della stagione 1965-66? L'8,8%. Come risultato, il campionato italiano visse uno dei periodi più deprimenti della sua storia fin quando, nel 1980, gli stranieri non furono di nuovo riammessi. Due anni più tardi l'Italia vinse il campionato del mondo in Spagna.Porre un freno ai calciatori extracomunitari è già di per sé anacronistico. Se poi i club non fanno la loro parte, diventa totalmente inutile. Secondo il rapporto demografico CIES 2014, nella classifica dei campionati con più calciatori cresciuti nel proprio club, l'Italia è ultima su 31 con l'8,4%. Il Belgio ne ha il 15,5% e la Germania ci doppia: 16,6%.
Come funziona in Belgio. Mentre in Italia la Federazione prende provvedimenti irrazionali, senza consultarsi con nessuno, in Belgio si collabora. L'attuale sistema giovanile è il frutto di un'integrazione tra governo nazionale, federazione, club calcistici e scuole. È un sistema a piramide: alla base ci sono le selezioni regionali (dagli under 12 agli under 17), da dove 200 scout visionano i calciatori di diversi campionati locali. Al livello successivo ci sono le Topsport Schools: otto centri sparsi per il Paese che consentono ai ragazzi, tra i 14 e i 18 anni, di allenarsi sotto la guida di allenatori che lavorano per la federazione belga. I giovani vengono selezionati sia dalle giovanili dei club di prima divisione sia dalle serie inferiori. Nelle TopSport schools i giovani vengono seguiti anche a livello individuale e si lavora sia sui fondamentali che su tattica e tecnica.
È importante sottolineare che queste scuole non sostituiscono gli allenamenti con le squadre di appartenenza. Sono un contributo in più, in un ambiente in cui si migliora come calciatori, come uomini e, soprattutto, si assorbe la filosofia calcistica belga. Perché i ragazzi lavorano quattro giorni a settimana con allenatori che hanno un solo obiettivo: farli crescere tecnicamente, prepararli per la nazionale maggiore senza l'assillo del risultato a tutti i costi. E abituarli al 4-3-3. Già, perché in Belgio (come in Germania) si è deciso di adottare un preciso stile di gioco: al di là del modulo i giovani diavoli rossi vengono catechizzati al pressing alto e alla difesa a zona. Il risultato è che, una volta arrivati in nazionale maggiore, i tempi di ambientamento sono ridotti al minimo. Nel 2012-2013 le TopSport schools hanno consentito a 337 calciatori di avere 250 ore extra di allenamento mirato. Courtois, Mertens, De Bruyne, Dembélé, Defour, Witsel e Chadli hanno frequentato proprio queste “università” del calcio. Al livello più alto della piramide ci sono le nove selezioni giovanili nazionali, di cui tre femminili.
A questo sistema si affianca un lavoro costante di “public relations” tra la federazione calcistica belga e i club professionistici, grazie a una serie di incontri annuali per pianificare il lavoro e appianare le (inevitabili) divergenze che si creano. E anche gli allenatori federali devono frequentare una scuola di formazione prima di mettere piede su un campo di allenamento. Poi, certo, ci sono altri elementi che vanno al di là di qualsiasi pianificazione. Non c'è dubbio che i belgi di seconda generazione abbiano dato un contributo decisivo – sia fisico che tecnico – alla nazionale. Quelle di Adnan Januzaj, Moussa Dembélé, Romelu Lukaku, Nacer Chadli, Divock Origi, Marouane Fellaini, Vincent Kompany, Anthony Vanden Borre e Axel Witsel sono storie di un'integrazione riuscita. Va anche detto, però, che il Belgio ha un sesto della popolazione dell'Italia. Cosa significa? Che può attingere da un bacino di potenziali calciatori nettamente inferiore al nostro.
Come funziona in Germania. In un Paese che supera di dieci volte l'estensione del Belgio e di otto volte la popolazione, il sistema è giocoforza più complesso. Ma la filosofia è la stessa: federazione e club lavorano insieme, i talenti si vanno a cercare in tutto il Paese, un'opportunità si dà a tutti e l'idea di calcio che si insegna è la stessa, a ogni livello. Nella piramide tedesca, alla base ci sono 390 “training camps” sparsi per tutto il Paese. Coinvolgono 14.000 bambini, non necessariamente tesserati per un club. Ognuno ha la possibilità di essere notato dagli allenatori della federazione tedesca. La filosofia è: se il più grande talento della sua generazione è nato in un paesino sperduto in mezzo alle montagne, gli scout federali lo troveranno. Se va male, avrà comunque fatto attività fisica e avrà imparato a convivere e a giocare con ragazzi di tutte le età. Questa è la base dello scouting della futura Nationalmannschaft e, secondo le linee guida della Dfb, a questo livello la pressione del risultato è praticamente assente. I training-camps non sono stati aperti e lasciati al loro destino: la Germania ha creato nuove figure professionali a metà tra l'allenatore e il dirigente: questi 29 coordinatori hanno il compito specifico di girare tra i 390 vivai per organizzare e uniformare i metodi di allenamento e tenere vivo il rapporto con i club locali.
Al livello successivo ci sono le elite schools: sono 28 in tutto il territorio tedesco e accolgono ragazzi tra gli 11 e i 20 anni. Il ruolo delle elite schools è molto simile a quello delle TopSport belghe: forniscono un allenamento ulteriore a ragazzi (tra gli 11 e i 20 anni) che già appartengono a qualche club. C'è di tutto: il piccolo fenomeno del Bayern Monaco e il ragazzino che gioca per la propria squadra locale semisconosciuta. Anche qui i programmi sono standardizzati e chi voglia aprire una nuova elite school deve soddisfare diciotto criteri di qualità stabiliti a livello nazionale. Tra gli standard, c'è anche quello tattico: in Germania le scuole calcio federali educano i ragazzi al 4-3-1-2. Esattamente quello messo in campo – con qualche adattamento – da Joachim Löw.
Ancora un passo avanti ed ecco i 45 centri di eccellenza. Qui arriva la “meglio gioventù” tedesca, quei ragazzi che, secondo i tecnici federali, hanno concrete possibilità non solo di giocare a livello professionistico, ma di fare carriera nei più importanti club del mondo. Nei centri di eccellenza si insegna a giocare e a comportarsi da veri professionisti, si educano i ragazzi al concetto di squadra al di sopra delle individualità, si formano i futuri leader della nazionale, stimolandoli a dare il massimo anche sotto pressione. In Germania, come in Belgio, il timone dell'intero movimento calcistico è in mano alla federazione, che fissa gli standard e detta le regole ai club. Un esempio? I club di prima e seconda divisione devono avere un settore giovanile accreditato dalla Dfb. Chi non si attiene perde la licenza. E ogni tre anni gli ispettori federali verificano che gli standard di qualità siano rispettati scrupolosamente. I club devono rispondere a un questionario di 800 domande. Ma a giudicare dai numeri, i club tedeschi puntano molto volentieri sui loro vivai: ogni anno solo le squadre di Bundesliga investono circa 100 milioni di euro nei settori giovanili.
Il sistema tedesco ha una peculiarità che lo distingue anche da quello belga: le squadre B. Mentre in Italia e in Belgio esiste un campionato primavera, dove le squadre giovanili dei club si confrontano tra di loro, in Germania (ma anche in Spagna) queste squadre sono inserite in campionati professionistici e giocano contro normalissimi club. Come se la Roma e la Juventus primavera giocassero in Serie B o in Lega Pro. I vantaggi delle squadre B sono notevoli: i giovani possono fare esperienza in campionati dove il risultato conta eccome e contro calciatori più anziani anche di 10-12 anni.
Il coraggio. I due sistemi che abbiamo descritto sono lontani anni luce da quello italiano, che pure può contare su tecnici preparati, un centro di formazione (sia per calciatori che per allenatori) di primissimo piano come quello di Coverciano e, soprattutto, tanti giovani calciatori di talento. La nazionale Under 21 italiana ha vinto più campionati europei di tutti: cinque, l'ultimo nel 2004, mentre nel 2013 ha perso solo in finale contro la Spagna. Il problema è che, oltre a mancare la regia di una federazione potente (e soprattutto con un preciso progetto sul tavolo) il campionato italiano regala pochissime chance ai nostri talenti. “Gli allenatori italiani hanno una bassissima propensione al rischio e concedono poco spazio ai giovani. Ma se i giovani non li fai giocare, se non gli consenti di sbagliare, non li farai mai crescere” spiega Xavier Jacobelli, giornalista sportivo e direttore di Calciomercato.com. “Basta guardare cos'è successo a Marco Verratti: dopo lo splendido campionato con il Pescara, le grandi squadre italiane non l'hanno voluto perché lo ritenevano costoso. Così è finito al PSG. E non è finita: Ciro Immobile, capocannoniere della Serie A, è stato svenduto da Juventus e Torino al Borussia Dortmund”. Molti club italiani fanno hanno settori giovanili di alto livello: Roma, Lazio, Inter, Empoli, Atalanta e Sampdoria, ma non solo. “Il problema è che quando questi ragazzi superano il limite di età per la primavera, non c'è un campionato che gli consenta di mettersi in mostra – continua Jacobelli - Le squadre B aiuterebbero molto in questo senso. Non esistono ricette magiche. A volte basta copiare gli altri.
Federico Formica per SerieAaddicted.com
La nazionale italiana è in crisi perché in Serie A giocano troppi stranieri. Ne siamo proprio sicuri? In realtà, i problemi della nazionale azzurra – e di tutto il movimento calcistico nazionale – nascono da lontano e si possono riassumere in due parole, due doti di cui dirigenti e allenatori del nostro Paese sono privi: coraggio e visione di sistema. Il fallimento di Sudafrica 2010 aveva fatto suonare un campanello d'allarme, che il bel campionato europeo di due anni dopo ha subito sopito. Ha detto bene Prandelli nella conferenza stampa nella quale ha annunciato le dimissioni, subito dopo la sconfitta con l'Uruguay: “Questa Nazionale ha mascherato i problemi del calcio italiano”. Infatti, in Brasile, la polvere che nel torneo in Polonia e Ucraina era finita sotto al tappeto è tornata in bella vista, davanti agli occhi del mondo.
Europei e Mondiali sono l'occasione per mettersi a confronto con il meglio che ci sia in circolazione a livello di movimenti calcistici nazionali. Se questi tornei vanno male, molto male, è importante cogliere il messaggio e agire in tempo per invertire la rotta. Anche Belgio e Germania hanno avuto le loro Waterloo. Ma hanno capito, hanno cambiato. In meglio o in peggio? La risposta è nei risultati raccolti nel mondiale brasiliano. Il Belgio si è presentato a Brasile 2014 con una rosa giovanissima (appena 26 anni e 15 giorni) e ha raggiunto un onorevole quarto di finale dopo aver mostrato sprazzi di bel calcio e, soprattutto, talenti che oggi fanno gola ai più grandi club europei. La Germania era appena più “anziana” (26 anni e 114 giorni di media) e, come sanno anche i sassi, ha vinto il suo quarto titolo mondiale con un gol di Götze (22 anni) su assist di Schürrle (23 anni). Thomas Müller è considerato un veterano e nel precedente Mondiale era anche stato capocannoniere. Ma ha appena 24 anni e ha già inanellato 56 presenze in nazionale maggiore. Alla stessa età, Matteo Darmian e Ciro Immobile ne sommano 8.
Entrambe queste nazionali sono risorte dopo aver toccato il loro punto più basso: il Belgio iniziò a svoltare nel 1998, quando tornò a casa nella fase a gironi del mondiale francese. La rivoluzione (che più avanti spiegheremo nel dettaglio) non è stata indolore e non ha dato risultati immediati: i Diavoli Rossi non si sono qualificati né per Germania 2006 né per Sudafrica 2010, tantomeno per gli ultimi tre campionati europei. La Germania toccò il fondo nel 2000, quando una squadra imbarazzante uscì al primo turno con un gol segnato e cinque al passivo. Quella Germania dovette richiamare addirittura Lothar Matthäus, trentanovenne, per puntellare una rosa carente e anziana. Sarebbe riduttivo definire “riforma” quella attuata da Belgio e Germania. Si è trattato di un lungo e difficile processo di integrazione tra federazione e club, tra dirigenti e allenatori, tra allenatori federali e allenatori di club.
Stranieri, un falso problema. Meno stranieri, più italiani. Ecco la formula magica per far resuscitare la nazionale azzurra. Uno slogan protezionistico, un po' vintage. Uno slogan vuoto, smentito dai fatti e dai numeri. Riprendiamo il filo conduttore della nostra inchiesta: il paragone con il calcio tedesco e belga. Prendendo in considerazione la prima divisione dei rispettivi Paesi, nella stagione 2013-2014 la Serie A è quella con la minor percentuale di giocatori stranieri con il 44,8%, segue la Bundesliga con il 46% e al primo posto c'è la Jupiler League belga con il 48,3% (dati Transfermarkt). I dati prendono in considerazione i tesserati, indipendentemente dal fatto che siano stati impiegati o no.
Dopo il fallimento di Sudafrica 2010, quando la Nazionale del Lippi-bis tornò a casa al primo turno, la Figc diede un'ulteriore giro di vite all'acquisto di calciatori extracomunitari. Da allora la situazione è rimasta immutata: le squadre di A non possono averne più di tre in rosa. Chi ha già raggiunto il limite massimo, prima di acquistarne due (dall'estero, perché dal campionato italiano se ne possono acquistare quanti se ne vuole) deve prima cederne altrettanti. In Bundesliga e Jupiler League continuano a sbocciare giovani talenti fatti in casa e, pensate, in questi due campionati non è stato posto alcun limite ai calciatori extracomunitari.
La Federazione italiana non è nuova a queste scelte, basate più sull'emotività del momento che non su una analisi razionale del sistema. Nel 1966 l'Italia fu eliminata dal Mondiale in Inghilterra al primo turno. Anche allora era la seconda volta consecutiva. Come conseguenza, la Figc chiuse le porte a qualsiasi calciatore straniero in Serie A. Volete sapere quanti erano i non italiani alla fine della stagione 1965-66? L'8,8%. Come risultato, il campionato italiano visse uno dei periodi più deprimenti della sua storia fin quando, nel 1980, gli stranieri non furono di nuovo riammessi. Due anni più tardi l'Italia vinse il campionato del mondo in Spagna.Porre un freno ai calciatori extracomunitari è già di per sé anacronistico. Se poi i club non fanno la loro parte, diventa totalmente inutile. Secondo il rapporto demografico CIES 2014, nella classifica dei campionati con più calciatori cresciuti nel proprio club, l'Italia è ultima su 31 con l'8,4%. Il Belgio ne ha il 15,5% e la Germania ci doppia: 16,6%.
Come funziona in Belgio. Mentre in Italia la Federazione prende provvedimenti irrazionali, senza consultarsi con nessuno, in Belgio si collabora. L'attuale sistema giovanile è il frutto di un'integrazione tra governo nazionale, federazione, club calcistici e scuole. È un sistema a piramide: alla base ci sono le selezioni regionali (dagli under 12 agli under 17), da dove 200 scout visionano i calciatori di diversi campionati locali. Al livello successivo ci sono le Topsport Schools: otto centri sparsi per il Paese che consentono ai ragazzi, tra i 14 e i 18 anni, di allenarsi sotto la guida di allenatori che lavorano per la federazione belga. I giovani vengono selezionati sia dalle giovanili dei club di prima divisione sia dalle serie inferiori. Nelle TopSport schools i giovani vengono seguiti anche a livello individuale e si lavora sia sui fondamentali che su tattica e tecnica.
È importante sottolineare che queste scuole non sostituiscono gli allenamenti con le squadre di appartenenza. Sono un contributo in più, in un ambiente in cui si migliora come calciatori, come uomini e, soprattutto, si assorbe la filosofia calcistica belga. Perché i ragazzi lavorano quattro giorni a settimana con allenatori che hanno un solo obiettivo: farli crescere tecnicamente, prepararli per la nazionale maggiore senza l'assillo del risultato a tutti i costi. E abituarli al 4-3-3. Già, perché in Belgio (come in Germania) si è deciso di adottare un preciso stile di gioco: al di là del modulo i giovani diavoli rossi vengono catechizzati al pressing alto e alla difesa a zona. Il risultato è che, una volta arrivati in nazionale maggiore, i tempi di ambientamento sono ridotti al minimo. Nel 2012-2013 le TopSport schools hanno consentito a 337 calciatori di avere 250 ore extra di allenamento mirato. Courtois, Mertens, De Bruyne, Dembélé, Defour, Witsel e Chadli hanno frequentato proprio queste “università” del calcio. Al livello più alto della piramide ci sono le nove selezioni giovanili nazionali, di cui tre femminili.
A questo sistema si affianca un lavoro costante di “public relations” tra la federazione calcistica belga e i club professionistici, grazie a una serie di incontri annuali per pianificare il lavoro e appianare le (inevitabili) divergenze che si creano. E anche gli allenatori federali devono frequentare una scuola di formazione prima di mettere piede su un campo di allenamento. Poi, certo, ci sono altri elementi che vanno al di là di qualsiasi pianificazione. Non c'è dubbio che i belgi di seconda generazione abbiano dato un contributo decisivo – sia fisico che tecnico – alla nazionale. Quelle di Adnan Januzaj, Moussa Dembélé, Romelu Lukaku, Nacer Chadli, Divock Origi, Marouane Fellaini, Vincent Kompany, Anthony Vanden Borre e Axel Witsel sono storie di un'integrazione riuscita. Va anche detto, però, che il Belgio ha un sesto della popolazione dell'Italia. Cosa significa? Che può attingere da un bacino di potenziali calciatori nettamente inferiore al nostro.
Come funziona in Germania. In un Paese che supera di dieci volte l'estensione del Belgio e di otto volte la popolazione, il sistema è giocoforza più complesso. Ma la filosofia è la stessa: federazione e club lavorano insieme, i talenti si vanno a cercare in tutto il Paese, un'opportunità si dà a tutti e l'idea di calcio che si insegna è la stessa, a ogni livello. Nella piramide tedesca, alla base ci sono 390 “training camps” sparsi per tutto il Paese. Coinvolgono 14.000 bambini, non necessariamente tesserati per un club. Ognuno ha la possibilità di essere notato dagli allenatori della federazione tedesca. La filosofia è: se il più grande talento della sua generazione è nato in un paesino sperduto in mezzo alle montagne, gli scout federali lo troveranno. Se va male, avrà comunque fatto attività fisica e avrà imparato a convivere e a giocare con ragazzi di tutte le età. Questa è la base dello scouting della futura Nationalmannschaft e, secondo le linee guida della Dfb, a questo livello la pressione del risultato è praticamente assente. I training-camps non sono stati aperti e lasciati al loro destino: la Germania ha creato nuove figure professionali a metà tra l'allenatore e il dirigente: questi 29 coordinatori hanno il compito specifico di girare tra i 390 vivai per organizzare e uniformare i metodi di allenamento e tenere vivo il rapporto con i club locali.
Al livello successivo ci sono le elite schools: sono 28 in tutto il territorio tedesco e accolgono ragazzi tra gli 11 e i 20 anni. Il ruolo delle elite schools è molto simile a quello delle TopSport belghe: forniscono un allenamento ulteriore a ragazzi (tra gli 11 e i 20 anni) che già appartengono a qualche club. C'è di tutto: il piccolo fenomeno del Bayern Monaco e il ragazzino che gioca per la propria squadra locale semisconosciuta. Anche qui i programmi sono standardizzati e chi voglia aprire una nuova elite school deve soddisfare diciotto criteri di qualità stabiliti a livello nazionale. Tra gli standard, c'è anche quello tattico: in Germania le scuole calcio federali educano i ragazzi al 4-3-1-2. Esattamente quello messo in campo – con qualche adattamento – da Joachim Löw.
Ancora un passo avanti ed ecco i 45 centri di eccellenza. Qui arriva la “meglio gioventù” tedesca, quei ragazzi che, secondo i tecnici federali, hanno concrete possibilità non solo di giocare a livello professionistico, ma di fare carriera nei più importanti club del mondo. Nei centri di eccellenza si insegna a giocare e a comportarsi da veri professionisti, si educano i ragazzi al concetto di squadra al di sopra delle individualità, si formano i futuri leader della nazionale, stimolandoli a dare il massimo anche sotto pressione. In Germania, come in Belgio, il timone dell'intero movimento calcistico è in mano alla federazione, che fissa gli standard e detta le regole ai club. Un esempio? I club di prima e seconda divisione devono avere un settore giovanile accreditato dalla Dfb. Chi non si attiene perde la licenza. E ogni tre anni gli ispettori federali verificano che gli standard di qualità siano rispettati scrupolosamente. I club devono rispondere a un questionario di 800 domande. Ma a giudicare dai numeri, i club tedeschi puntano molto volentieri sui loro vivai: ogni anno solo le squadre di Bundesliga investono circa 100 milioni di euro nei settori giovanili.
Il sistema tedesco ha una peculiarità che lo distingue anche da quello belga: le squadre B. Mentre in Italia e in Belgio esiste un campionato primavera, dove le squadre giovanili dei club si confrontano tra di loro, in Germania (ma anche in Spagna) queste squadre sono inserite in campionati professionistici e giocano contro normalissimi club. Come se la Roma e la Juventus primavera giocassero in Serie B o in Lega Pro. I vantaggi delle squadre B sono notevoli: i giovani possono fare esperienza in campionati dove il risultato conta eccome e contro calciatori più anziani anche di 10-12 anni.
Il coraggio. I due sistemi che abbiamo descritto sono lontani anni luce da quello italiano, che pure può contare su tecnici preparati, un centro di formazione (sia per calciatori che per allenatori) di primissimo piano come quello di Coverciano e, soprattutto, tanti giovani calciatori di talento. La nazionale Under 21 italiana ha vinto più campionati europei di tutti: cinque, l'ultimo nel 2004, mentre nel 2013 ha perso solo in finale contro la Spagna. Il problema è che, oltre a mancare la regia di una federazione potente (e soprattutto con un preciso progetto sul tavolo) il campionato italiano regala pochissime chance ai nostri talenti. “Gli allenatori italiani hanno una bassissima propensione al rischio e concedono poco spazio ai giovani. Ma se i giovani non li fai giocare, se non gli consenti di sbagliare, non li farai mai crescere” spiega Xavier Jacobelli, giornalista sportivo e direttore di Calciomercato.com. “Basta guardare cos'è successo a Marco Verratti: dopo lo splendido campionato con il Pescara, le grandi squadre italiane non l'hanno voluto perché lo ritenevano costoso. Così è finito al PSG. E non è finita: Ciro Immobile, capocannoniere della Serie A, è stato svenduto da Juventus e Torino al Borussia Dortmund”. Molti club italiani fanno hanno settori giovanili di alto livello: Roma, Lazio, Inter, Empoli, Atalanta e Sampdoria, ma non solo. “Il problema è che quando questi ragazzi superano il limite di età per la primavera, non c'è un campionato che gli consenta di mettersi in mostra – continua Jacobelli - Le squadre B aiuterebbero molto in questo senso. Non esistono ricette magiche. A volte basta copiare gli altri.
Federico Formica per SerieAaddicted.com