Gli stipendi d'oro zavorra del sistema
Quella tra giocatori e presidenti sembra la classica guerra tra ricchi. Perché è vero che sul tavolo della contesa, una volta tanto, non ci sono vantaggi economici da conquistare o da difendere. Ma è altrettanto innegabile che a confrontarsi siano due categorie che, arroccandosi su posizioni di principio in fin dei conti marginali - la gestione dei «fuori rosa» - rischiano di perdere di vista l'intera sostenibilità del sistema calcio. Che, a fronte di una crisi economica mondiale, non può dirsi del tutto tranquillo. Ad alzare il velo sulle «magagne» del calcio italiano è il consueto rapporto di inizio stagione firmato dall'agenzia di ricerche Stage Up. Una serie di dati che, letti tra le righe, puntano il dito sia contro i calciatori che contro i dirigenti. I primi costituiscono una categoria di privilegiati pagati a peso d'oro. In Italia più che altrove, benché la serie A abbia abdicato già da anni dal trono di campionato più bello del mondo. Il costo del personale costituisce infatti una delle voci che più appesantiscono il bilancio delle società di massima serie. Basti pensare che, a metà della campagna acquisti estiva (e in attesa dei veri «botti») i 20 club di A hanno già speso circa 338 milioni di euro per il potenziamento dell'organico, molto in più rispetto a Premier (225), Liga (200), Bundesliga (135) e Ligue 1 (107, quasi tutti ascrivibili al Psg di Leonardo). Il saldo con le cessioni è in negativo: -75 milioni. Il ché, in parte è dovuto anche alla scarsa propensione dei calciatori a trasferirsi in altre realtà meno prestigiose o con ingaggi meno ricchi di quelli ottenuti nei tempi d'oro. Un problema che riguarda in particolare la Lazio di patron Lotito. Sono i presidenti, quindi, le uniche vere vittime del sistema? Assolutamente no. Innanzitutto perché, a proporre e controfirmare quei contratti sono stati proprio i numeri uno dei club: le rose extralarge e gli stipendi d'oro, in definitiva, sono una loro responsabilità. Ma la seconda - e più grave - colpa dei proprietari dei club è quella di aver posto l'attenzione su questioni alla fin fine di poco conto (compresa la lunga diatriba sulla ripartizione dei diritti tv) senza pensare a come programmare un futuro più redditizio. Non bisogna dimenticare l'imminente entrata in vigore del Fair play finanziario, che costringerà le società a massimizzare i ricavi più che a ridurre le spese. Da questo punto di vista, i guadagni della serie A sono ancora troppo legati agli introiti media (oltre il 58% del fatturato) mentre, Juventus a parte, si registra un gravissimo ritardo sul fronte stadi di proprietà. Dunque il sistema è condannato al declino? Non è detto, perché in fin dei conti per l'Italia adeguarsi al Fair play potrebbe essere meno traumatico che per altri campionati. In fondo, il deficit totale delle società di A è di «soli» 2.3 miliardi contro i 3.5 della Liga e i 3.9 della Premier. Tempo e margini per rendere il sistema più equilibrato ci sono. L'importante è che le parti la smettano di difendere i propri orticelli e si dimostrino più lungimiranti.