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Pozzo si ritira, il modello Udinese no
Un sistema che negli anni è diventato una macchina perfetta, modello da seguire anche per i grandi club, modello da esportare: prima in Spagna, residenza dorata e lavorativa dei Pozzo, al Granada (portato dalla Tercera alla Primera Division, e poi anche in Inghilterra, con il Watford ristrutturato e trascinato nuovamente in Premier.
Il tutto con una gestione ispirata ai cari vecchi principi manageriali da imprenditore di provincia. Mai un progetto esagerato, mai un passo troppo lungo. Sempre con attenzione alle spese, al centesimo, a costo di apparire poco trendy, a costo di scendere in campo o di prendere il microfono e dirne quattro all’arbitro malevolo di turno.
Una gestione rampante, all’italiana, forse d’altri tempi, anche se bene o male i risultati continuano ad arrivare e intanto il Friuli è diventato uno stadio moderno, bello comodo, seppur non ancora funzionale al progetto. Per costruirlo la squadra è stata penalizzata, meno investimenti e classifica difficile, con conseguente disaffezione di un pubblico abituato al meglio, perfino a una qualificazione in Champions oltre che al lancio di giocatori top class, tipo Sanchez ceduto al Barcellona e da lì all’Arsenal. E prima una serie infinita: De Sanctis, Handanovic, Zapata, Felipe, Marcio Amoroso, Inler, Asamoah, Muntari, Isla, Iaquinta, Quagliarella e naturalmente Di Natale.
Pozzo chiude ma il figlio Gino ne aveva già raccolto l’eredità, assieme alla sorella Magda. Non si tratta di una svolta, ma solo di un adeguamento al tempo che passa e ai tempi che cambiano, anche nel calcio. Il modello Udinese resta, la piccola media azienda che tanto ha da insegnare ai presunti professori delle multinazionali è sempre in pista, sempre attiva. Con nuovi sogni da inseguire: di nuovo la Champions, nuovi astri da far risplendere, da Meret (portiere parcheggiato alla Spal) ai centrocampisti Fofana, Jankto e De Paul. Pozzo senior si fa da parte, il marchio Udinese non passa di moda.